Per decenni ci siamo sentiti dire da insegnanti e genitori:”Non parlare in dialetto”! Oggi di meno, anche se il pregiudizio che parlare il Sardo sia un limite e un disvalore oltre che un ostacolo e un impedimento per l’apprendimento, permane ancora. In realtà la scienza – con pedagogisti, linguisti e glottologi, psicologi psicoanalisti e perfino psichiatri – ritiene che la presenza della lingua materna e della cultura locale, ad iniziare dal curriculum scolastico, si configurino non come un fatto increscioso da correggere, ma come elementi indispensabili di arricchimento, che non “disturbano” anzi favoriscono l’apprendimento e le capacità comunicative degli studenti perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo. Del resto persino i programmi scolastici, sia pure in misura ancora troppo timida e relativi solo alla scuola elementare, raccomandano di portare l’attenzione degli alunni “sull’uomo e la società umana nel tempo e nello spazio, nel passato e nel presente, per creare interesse intorno all’ambiente di vita del bambino, per accrescere in lui il senso di appartenenza alla comunità e alla propria terra”.
“E’ compito della scuola elementare – si afferma ancora – stimolare e sviluppare nei fanciulli il passaggio dalla cultura vissuta e assorbita direttamente dall’ambiente di vita, alla cultura come ricostruzione intellettuale”. Ciò significa –per quanto attiene per esempio al Sardo – partire da esso per pervenire all’uso della lingua italiana e delle altre lingue, senza drammatiche lacerazioni con la coscienza etnica del contesto culturale vissuto, in un continuo e armonico arricchimento dell’intelletto, per aprire nuovi e più ampi orizzonti alla formazione e all’istruzione. La pedagogia moderna più avveduta infatti ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta sono la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” culturalmente e linguisticamente. A confermarlo autorevolmente, è Antonella Sorace, docente di Linguistica Acquisizionale all'Università di Edimburgo,intervenuta recentemente a un Convegno a Cagliari, su iniziativa del Servizio Lingua e cultura sarda della Regione, sotto il nome di “Bilinguismu Creschet”. Secondo la studiosa, non solo gli studi dell'Università in cui insegna, ma anche le ricerche di altri centri dimostrano che il bilinguismo modifica il cervello in modo significativo, rendendolo più flessibile: crescere un bambino “esponendolo” a due lingue è un investimento per tutta la società. Non è vero che crescerà confuso, né che l'impegno di passare da una lingua all'altra può ritardare lo sviluppo cognitivo o possa andare a scapito del rendimento scolastico nella lingua maggioritaria. E’ vero il contrario.