La lettera apostolica Misericordia et misera di papa Francesco mi offre l’occasione per ritornare su un tema a me molto caro, come pediatra neonatologo interessato alla storia della medicina. Si tratta di questo: è plausibile che le scoperte medico-scientifiche dell’era moderna abbiano influenzato la morale cattolica a proposito di vita fetale e aborto? Per riflettere su questo argomento è necessario partire dai fondamenti.
Il divieto di aborto enunciato nel Giuramento di Ippocrate (460-377 a.C.) appare tanto più sorprendente in quanto nella cultura greco-romana l’atto abortivo non urtava il comune senso morale e non era soggetto a particolari restrizioni giuridiche. Secondo Aristotele (384-322 a.C.) l’essere umano, fin dalla sua prima formazione, possiede una triplice anima in potenza: la vegetativa, che prende forma quando l’embrione comincia ad alimentarsi; la sensitiva, che contraddistingue l’animale; l’intellettiva o razionale, che proviene dall’esterno e costituisce l’uomo come tale. Ognuna di esse entra in funzione non appena la strutturazione del feto è giunta al tal punto da permetterle di «compiere l’opera sua propria». Ma quando si può dire compiuto questo processo? Quando si è giunti in quell’epoca di gravidanza nel quale il feto si presenta ben differenziato, il che per il maschio accade intorno al quarantesimo giorno, per la femmina solo dopo il terzo mese.
Il cristianesimo dei primi secoli innesta nella società civile un concetto innovativo: per la prima volta il feto è considerato un’entità da tutelare. Di conseguenza l’aborto è fermamente condannato in quanto contrario alla sovranità del Creatore sulla vita umana e sul processo generativo. Tutti i padri della Chiesa senza eccezioni si mantengono fermi su questa posizione, pur ammettendo la distinzione aristotelica tra feto formato e non formato. Per quanto riguarda l’animazione - ovvero il momento in cui Dio infonde l’anima razionale nel corpo del feto - alcuni di questi propendono per l’animazione immediata (padri della Chiesa d’Oriente) e altri per quella ritardata (padri d’Occidente).
Beato Angelico (1395-1455), Annunciazione, Convento di San Marco, Firenze
Sant’Agostino (354-430) non fornisce una risposta esplicita sul momento in cui il feto assume la forma di essere umano. Commentando un noto passo dell’Esodo (Es. 21, 22-23) il vescovo d’Ippona sostiene la giustezza della legge mosaica sulla non punibilità dell’aborto accidentale in presenza del feto ancora non formato: infatti il feto non risulta uomo finché dell’uomo non ha l’apparenza e la sensibilità. In quel periodo anche Lucifero di Cagliari (m. 370 d.C.), richiamandosi al medesimo passo delle Scritture, accenna all’animazione ritardata. Ma quand’è che il feto comincia a vivere, si chiede Agostino? Non si sa ed è assai dubbio che l’umanità, nonostante l’impegno dei suoi uomini più dotti, giunga mai a chiarirlo: potrebbe infatti esservi nel feto una vita segreta che non si rivela con alcun movimento. Questa è l’ultima parola del vescovo d’Ippona, e ancora oggi i pareri sul momento in cui ha inizio la “vita umana” del feto sono molto discordi.
La dottrina di san Tommaso d’Aquino non si discosta sostanzialmente dalla tesi aristotelica dell’animazione ritardata, stabilita in quaranta giorni per il feto maschile e in ottanta per quello femminile.
Un autorevole contemporaneo dell’Aquinate, l’arcivescovo di Pisa nonché primate di Sardegna e di Corsica Federico Visconti (1200-1277), è dello stesso parere, convinto com’è che la completezza delle membra del corpo è fondamentale ai fini dell’infusione dell’anima, perché a Dio non piacciono le cose informi (quia informia displicent Deo).
Fino al XV secolo la dottrina cattolica ufficiale segue la tesi di san Tommaso. Le autorità romane avevano sempre mostrato una certa riluttanza verso i cambiamenti e molta diffidenza nei confronti degli innovatori. Il peccato di aborto continuava ad essere caso riservato al giudizio e all’assoluzione del vescovo. Ma sul piano canonico-pastorale, cioè sulle sanzioni da comminare ai peccatori, la Santa Sede si era sempre tenuta alquanto cauta. Un conto sono infatti le norme del diritto canonico, altro le interpretazioni della teologia morale. Il confessore è il primo a raccogliere le testimonianze riguardanti le vicende abortive e se nutre qualche dubbio si rivolge al teologo moralista per ottenere una risposta chiara e completa, che tenga conto non solo del rispetto della norma canonica, ma anche delle concrete circostanze e delle difficoltà soggettive cui è andato incontro il penitente. Nel XV secolo sono infatti i teologi moralisti a riaccendere il dibattito sull'aborto, che in quel tempo è ammesso esclusivamente in presenza di feto non formato. Inizia a farsi strada anche una nuova distinzione, destinata ad avere successo: quella dell’aborto diretto e indiretto. L’aborto diretto, come suggerisce la definizione, mira a eliminare il feto direttamente. Quello indiretto è inteso come l’uso di un farmaco curativo per la madre, ma abortivo per il figlio al di là delle intenzioni. Solo l’aborto indiretto sarebbe lecito e i manuali di morale dell’epoca spesso si dilungano a elencare i diversi tipi di farmaci efficaci a riguardo. C’è chi ammette la liceità dell’aborto indiretto per salvare la madre anche sul feto animato, purché non vi sia qualche speranza di vita per il figlio. Altri sostengono che, se un feto animato costituisce una minaccia per la vita della madre, è lecito difendersi come ci si difenderebbe davanti ad un aggressore pazzo che attentasse alla vita di un incolpevole: in altre parole, si tratterebbe di legittima difesa.
Leonardo da Vinci (1452-1519), Feto in utero a termine di gravidanza (disegno), Royal Library, Windsor
Nel corso dei suoi studi anatomici Leonardo da Vinci (1452-1519) sviluppa una teoria alquanto audace che gli costerà cara. Accanto ai meravigliosi disegni dei feti egli annota alcune riflessioni sugli scambi metabolici e nutritivi tra madre e feto, mediati dalla placenta. Secondo Leonardo il feto non ha vita propria, il suo cuore non pulsa, non respira perché annegherebbe dato che è immerso nel liquido amniotico. Ma dalle considerazioni di tipo vitalistico l'artista-scienziato scivola verso un livello pericolosamente filosofico, in contrasto con le speculazioni teologiche e filosofiche del tempo. Egli afferma infatti che una stessa identica anima, quella materna, presiede simultaneamente alle attività della madre e del feto: tramite la vena ombelicale è l’anima “della madre che, prima, compone nella matrice la figura dell’omo e, al tempo debito, desta l’anima di quel che debbe essere l’abitatore” (Vasari). Leonardo si era spinto troppo in là: fu infatti denunciato da alcuni detrattori al papa Leone X (1475-1521) per i suoi studi di embriologia, gli furono impediti i lavori sull’anatomia e fu costretto a lasciare Roma.
Nel periodo post-tridentino il sapere medico e quello teologico non potevano permettersi di entrare in conflitto. Era quindi necessario raggiungere un’intesa, ma si andò un po’ oltre, nel momento in cui i medici cominciarono a invadere il campo della teologia, con il paradossale risultato di un rovesciamento delle parti tra medico e teologo.
Adriaan Spigelius (1578-1625) De formatu foetu, Padova
L’anatomista bolognese Giulio Cesare Aranzio (1530-1589), noto per una speciale competenza nell’assistere le partorienti, era considerato esperto nello studio dei feti abortivi. Aranzio, che sosteneva tra l’altro di avere scoperto una piccola cavità cerebrale identificabile nella sede dell’anima, si pose anche il problema se salvare la madre o il bambino in caso parto a rischio. Era meglio perdere la madre o lasciare morire il bambino che non riusciva a venire alla luce e condannarne l’anima per l’eternità? Aranzio preferisce attenersi alla regola di abbandonare la scena del parto lasciando ad altri la decisione, secondo il principio morale che vieta di fare il male per ricavarne il bene. Ma un celebre teologo domenicano suo contemporaneo ribatteva che non era lecito far morire la donna per battezzare il figlio.
Girolamo Mercuriale di Forlì (1530-1606), affermato docente di medicina a Pisa, ipotizzò cautamente che, se l’anima era una sola e doveva essere identificata con la vita stessa dell’organismo, poteva essere immessa nel feto a partire dalla formazione degli organi: l’anima come soffio vitale soppianta l’anima razionale e assume l’identità dell’anima cristiana. Da Aristotele, che considerava l’anima come forma dell’essere vivente, si passa all’anima come entità divina immortale ospitata provvisoriamente nel corpo.
Sisto V (1520-1590), già noto come inquisitore rigoroso, nel 1588 emana la costituzione Effraenatam con cui intende perseguire la piaga dell’aborto, causa del gravissimo danno spirituale subito dai non nati, privati della beatitudine celeste. Le pene comminate, compresa la scomunica, colpiscono oltre i diretti interessati anche coloro che hanno collaborato alla pratica abortiva. L’epoca della gravidanza non ha alcuna rilevanza: animato o non animato che fosse il feto, sussistevano le conseguenze penali e l’assoluzione del peccato era riservata alla Santa Sede.
Ma la costituzione sistina era difficile da mettere in pratica, perché costringeva il penitente a rivolgersi direttamente alla Santa Sede. Inoltre, l’eliminazione della distinzione tra feto animato e inanimato urtava contro la prassi della Penitenzieria e contro la teoria dei canonisti e dei teologi. Ci fu una forte resistenza, che non ebbe bisogno di molto tempo per trionfare. Alla morte di Sisto V, il successore Gregorio XIV (1535-1591) dopo soli tre anni reintrodusse la distinzione tra feto animato e inanimato, stabilendo che per l’aborto ante animationem si tornasse alla disciplina precedente. Inoltre, l’assoluzione della scomunica fu demandata ai vescovi diocesani e ai loro delegati. Questa disciplina canonica regolerà la materia dell’aborto senza sostanziali modifiche per i successivi trecentocinquant’anni.
(continua)