Gli abitanti della Barbagia, che in periodo cartaginese-romano erano conosciuti col nome di Iolaesi-Iliesi, già nella prima metà del secolo VI, durante la dominazione bizantina della Sardegna, venivano chiamati Barbaricini. Il primo testo a indicarli con questo nome è il Codex Justinianus. Costituendo la nostra Isola una delle sette provincie africane, l’imperatore Giustiniano, preoccupato delle continue incursioni delle popolazioni ribelli delle montagne dell’interno, volle che Forum Traiani (Fordongianus) divenisse di nuovo la sede delle milizie imperiali per respingerle e difendere cosi le popolazioni della pianura. Perciò ordinò a Bellisario, prefetto del Pretorio dell’Africa che risiedeva a Cartagine, di mandare in quella postazione alle pendici delle montagne, dove abitavano i Barbaricini un contingente militare numeroso quanto era necessario per tenerli a bada.
I Barbaricini, come i Sardi delle origini, professavano il politeismo e praticavano una religione naturalistica: assieme al culto degli antenati e a quello delle forze della natura, che costituiva per loro l’unica fonte di vita, nel loro firmamento religioso costellato di varie divinità brillavano di una luce particolare la Gran Madre, dea della fertilità e della maternità, e il Dio Toro, suo partner, il cui simbolo veniva spesso scolpito sulle pareti delle domus de jana. Ambedue le divinità erano rappresentate anche dai menhirs, le cosiddette “pietre fitte”, grosse pietre infisse nel terreno (la più alta che si trova presso Mamoiada, misura ben 6,50 metri).
In queste pietre o pilastri sacri che rappresentavano, con le loro forme coniche , appuntite e tondeggianti in cima, il fallo, simbolo del toro solare, il compagno della lunare Gran Madre, si credeva scendesse ad abitare la divinità, donde il loro nome betilo (da beth-el = casa di dio). Ovviamente quei betili finivano per essere ritenuti divinità essi stessi, come è dimostrato dal fatto che tra gli dei fenici, le fonti antiche annoverano anche Bait-ili, cioè Betilo. Niente di strano allora che, almeno quanto al nome, questi menhir siano di derivazione fenicia.
Alla concezione della pietra sacra ci riporta, in un certo senso, il culto per le rocce, le montagne, gli alberi e i fiumi sacri, in quanto ritenuti sedi della divinità, praticato ancora alla fine del VI secolo d.C., nelle zone impervie del Centro Sardegna.
E’ a questo periodo che risale la conversione dei Barbaricini, in circostanze ancora oscure.
Mentre nelle pianure della Sardegna il cristianesimo si era rapidamente imposto, nelle montagne della Barbagia dominava ancora il paganesimo: gli abitanti di questa zona, cioè i barba ricini, conducevano una vita durissima, ignoravano il Dio cristiano e adoravano pietre e tronchi d’albero.
L’imperatore Maurizio, comprendendo che il dominio di Bisanzio non sarebbe stato mai completo fino a che i Barbaricini fossero rimasti autonomi, ordinava a Zabarba, l’allora duca o magister militum che risiedeva a Fordongianus, di condurre contro di loro una campagna a fondo, senza tregua, per una completa sottomissione.
Quella di Zabarda fu la campagna finale di una lunga guerra iniziata nel 537: con gli uomini dei presidii a lui sottoposti e con l’aiuto di contingenti inviatigli dallo stesso imperatore, in brave tempo Zabarda costringeva gli indomiti montanari a trattare di pace; ma senza l’intervento del papa Gregorio Magno l’accordo sarebbe stato privo di valore, come accadeva dopo le razzie all’epoca romana, allorché i Barbaricini venivano attaccati e costretti ad una sottomissione che non veniva mai rispettata.