Patriota ed eroe nazionale sardo (Cagliari 1769 –Sassari 1802).
Figlio di Michele e fratello di Antonio, poi implicato nella Rivolta di Palabanda. Notaio della Reale Udienza. Repubblicano convinto, pur avendo combattuto contro i rivoluzionari francesi nel 1793, per difendere Cagliari e la Sardegna dalla loro aggressione e tentativo di conquista.
Fu seguace e amico di Giovanni Maria Angioy e, insieme a lui protagonista nelle lotte e nelle ribellioni antifeudali e nazionali dei Sardi contro il feudalesimo e il dominio tirannico e poliziesco dei Savoia.
Nel novembre del 1795, col notaio Antonio Manca e con l’avvocato Giovanni Falchi, seguaci dell’Angioy, fu inviato dagli Stamenti nel Capo di Sopra, per la pubblicazione e diffusione, nei villaggi, del pregone viceregio del 23 ottobre che contraddice la circolare del governatore di Sassari Santuccio del 12 dello stesso mese, che ordinava di sospendere tutti gli ordini provenienti da Cagliari. Un vero e proprio tentativo “secessionista” del governatore stesso e dei baroni. che avevano la loro roccaforte proprio a Sassari.
“L’invio dei tre commissari, secondo la Storia dei torbidi, ripresa dal Manno, è preceduta da una riunione a Cagliari alla quale prendono parte, oltre ai «capi cagliaritani della congiura» anche gli avvocati Mundula e Fadda di Sassari e altri «innovatori» sassaresi, in tale riunione si stabiliscono le linee d’azione per il futuro: mobilitazione dei villaggi del Logudoro, assedio di Sassari, arresto dei reazionari, loro traduzione a Cagliari”(1).
Nonostante il viceré, venuto a conoscenza del piano, cerchi di dissuadere Cilocco dal pubblicare e diffondere il pregone, il Nostro non solo lo pubblica e lo diffonde ma diviene l’anima dei moti, insieme agli altri due commissari, Manca e Falchi, riuscendo a coinvolgere e mobilitare nella sua battaglia antifeudale non solo il popolo (contadini e villici in genere), particolarmente colpito dalla scarsità dei raccolti negli anni 1793-95, ma anche settori della piccola nobiltà e del clero: di qui la partecipazione alle lotte antifeudali di numerosi sacerdoti come i parroci Gavino Sechi Bologna (rettore di Florinas), Aragonez (rettore di Sennori), Francesco Sanna Corda (rettore di Torralba) e Francesco Muroni, (rettore di Semestene) che “conoscevano le miserie e talvolta subivano le stesse angherie dai baroni e dai loro ministri” (2).
Annota inoltre lo storico Girolamo Sotgiu che “direttamente investiti dalla massa degli zappatori affamati, i proprietari coltivatori, che costituiscono l’altro cardine della società rurale, sollecitavano anch’essi la fine del sistema feudale. Anche i proprietari coltivatori erano notevolmente aumentati come aumentata era la produzione complessiva. Ma a questo aumento della produzione non aveva fatto riscontro un aumento del benessere, proprio per gli impedimenti posti dal sistema feudale”(3).
Di qui la lotta antifeudale e antibaronale ma anche di liberazione nazionale . Racconta Francesco Sulis che “Il Ciloccco nel villaggio di Thiesi intesosi con Don Pietro Flores amico dell’Angioy, da un terrazzo della Casa Flores eccitò quelli popolani a insorgere contro i feudatari; e di subito essi tennero l’invito, ed a furia, con tutta sorta di stromenti percotendo le mura del palazzo feudale, lo rovinarono e l’adequarono al suolo”(4)
A Osilo, Sedini e Nulvi, tre centri dell’Anglona i vassalli si rifiutarono di pagare i diritti feudali. Mentre a Ittiri, Uri, Thiesi, Pozzomaggiore e Bonorva e ad Ozieri e Uri i contadini s'impossessarono dei granai dei feudatari.
Una lotta che assume però anche caratteri più squisitamente politici, prefigurando in qualche modo un nuovo ordine e una nuova organizzazione sociale, attraverso una trasformazione non violenta dell’assetto esistente. Sempre a Thiesi infatti, il 24 novembre davanti al notaio Francesco Sotgiu Satta le ville di Thiesi, Bessude e Cheremule, del marchesato di Montemaggiore, appartenente al duca dell’Asinara, con sindaci, consiglieri, prinzipales, capi famiglia, firmano il primo atto confederativo, cui seguirono nei mesi successivi altri patti d’alleanza. E con esso giurano di non riconoscere più alcun feudatario, ma anche di voler “ricorrere prontamente a chi spetta per essere redenti pagando a tal effetto quel tanto, che da’ Superiori sarà creduto giusto e ragionevole”(5).
I cosiddetti “strumenti di unione” ovvero “patti” fra ville e paesi segnano un salto di qualità della lotta antifeudale, facendole assumere una cifra più squisitamente politica: le federazioni di comunità infatti assurgono al ruolo di soggetto primario, di protagonista fondamentale nell’evoluzione sociale dell’Isola. Esse si moltiplicano e si diffondono in tutto il Sassarese: dopo quelli del 24 novembre se ne stipula un altro a Thiesi il 17 marzo 1796 fra i rappresentanti di 32 paesi fra i quali Bonorva, Ittiri, Osilo, Sorso, Mores, Bessude, Banari, Santu Lussurgiu, Semestene e Rebeccu. “Il patto – scrive Vittoria Del Piano – vincola le popolazioni a spendere fin l’ultima goccia di sangue, piuttosto che obbedire in avvenire ai loro baroni” (6).
Lo sbocco di questo ampio movimento, autenticamente rivoluzionario e sociale, perché metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne, fu l’assedio di Sassari. A migliaia – 13 mila secondo le fonti ufficiali e secondo Francesco Sulis, un esercito di contadini armati, proveniente dal Logudoro ma anche dal Meilogu e da paesi più lontani, accorse a Sassari, stringendola d’assedio. Secondo invece lo storico Giuseppe Manno “Sommavano quegli armati a meglio di tremila, non numerando le donne che in copioso numero erano venute anch’esse a guerra, o per assistere i congiunti o per comunione d’odio ed eransi partiti da Osilo, Sorso, Sennori, Usini, Tissi, Ossi, Thiesi, Mores, Sedilo, Ploaghe e altri luoghi posti in quelle circostanze”(7).
Il numero di tremila è poco credibile: vista la massiccia e ubiquitaria mobilitazione soprattutto dei paesi del Logudoro e dell’Anglona ma anche del Meilogu. del Goceano e non solo. Il Manno, storico conservatore e filosavoia, tende a minimizzare e sminuire l’ampiezza, l’organizzazione e la qualità di una lotta di migliaia e migliaia di contadini, uomini e donne, che dopo secoli di rassegnazione, usi a chinare il capo e a curvare la schiena, si ribellano, si armano per dire basta e per porre fine a un duro stato di servitù, di rapina e di sfruttamento inaudito.
Il Manno non è dunque credibile. La sua, più che una Storia della Sardegna è infatti una Storia regia della Sardegna. E non è un caso che il magistrato sassarese Ignazio Esperson nei suoi Pensieri sulla Sardegna dal 1789 al 1848, definisca il Manno “l’antesignano della scuola delle penne partigiane e cortigianesche che vergognano le patrie storie”.
A migliaia, comunque, al di là del numero, a piedi e a cavallo circondarono Sassari, pare al canto di Procurade 'e moderare, Barones, sa tirannia di Francesco Ignazio Mannu. Così l’esercito dei contadini, guidato dal Cilocco e da Gioachino Mundula, costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. Quindi, mentre il famigerato duca dell'Asinara, il conte d’Ittiri e alcuni feudatari, erano riusciti a scappare precipitosamente in tempo, prima dell’assedio, rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi, Cilocco e Mundula arrestarono il governatore don Antioco Santuccio e l’arcivescovo Giacinto Vincenzo Della Torre, portandoli a Cagliari verso cui si dirigono con 500 uomini armati.
Gli Stamenti d'accordo col viceré, per porre rimedio alla piega, secondo loro pericolosa e “sovversiva” che avevano preso gli avvenimenti, inviarono loro incontro altri tre commissari, che li raggiunsero con un manipolo di guardie il 4 gennaio 1796 a Oristano, ed ingiunsero loro dì liberare gli ostaggi e rimandare ai villaggi d'origine i loro uomini, nel frattempo ridottisi di numero. Ad un primo rifiuto, due giorni dopo, a Sardara, i commissari viceregi risposero con un atto di forza. Cilocco, per paura di essere arrestato, consegna il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre ai tre inviati del vicerè : l’avvocato Ignazio Musso, l’abate Raffaele Ledà e Efisio Luigi Pintor Sirigu, ex democratico, uno dei protagonisti della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794, ma ormai “pentito” e da vero e proprio voltagabbana, rientrato, opportunisticamente, in cambio di onori, uffizi e privilegi, nell’alveo filo sabaudo.
Era il segnale della svolta moderata che stava maturando negli Stamenti e che avrebbe di lì a poco provocato anche la caduta di Angioy: si concludeva infatti così quella che, a posteriori, sarebbe apparsa come la prova generale della sfortunata marcia di G. M. Angioy.
“Non sembra – scrive Bruno Anatra – che il Cilocco facesse parte del gruppo che nel corso dello stesso anno, seguì Angioy nella sua missione a Sassari e nella successiva, rapidamente abortita, spedizione su Cagliari. È certo invece che, appena la repressione da strisciante si fece palese, anche il Cilocco prese la via dell'esilio e raggiunse il gruppo giacobino sardo a Parigi. Di qui, nella convinzione dell'imminenza di una azione francese in direzione della Sardegna, nella primavera del 1799, gran parte di essi si trasferivano in Corsica. Del gruppo faceva parte il Cilocco che nel gennaio 1801 risulta fosse ad Ajaccio” (8).
E’ comunque certo che il 21 maggio del 1802 si trasferisce in Corsica, insieme a Mundula, Sanna Corda e altri. Con Sanna Corda in particolare collabora per preparare il progetto di una insurrezione in Sardegna: che avrebbe dovuto contare questa volta – dopo i tentativi sempre falliti di coinvolgere truppe francesi – esclusivamente sui Sardi ancora fedeli ad Angioy e comunque nemici giurati del feudalesimo e dei governanti piemontesi, per fondare una repubblica sarda indipendente.
Negli ultimi mesi del 1799 c'era stata la rivolta, sanguinosamente repressa, di Thiesi e Santulussurgiu, segno agli occhi di Cilocco che lo spirito antifeudale nel Logudoro era ancora vivo. E dunque si poteva dare un corso diverso alla storia della Sardegna. Nonostante la monarchia sabauda con i suoi scherani, avesse “già raso al suolo più di un villaggio, inaugurato la forca itinerante, tagliato molte teste, ingalerato a piacimento innocenti e sospetti, seviziato donne e frustato bambini”(9).
Essi inoltre contavano, per costituire una solida base di appoggio, sull'irriducibile banditismo dei, pastori galluresi. All'uopo presero contatto con un famigerato bandito e contrabbandiere, Pietro Mamia, e per suo tramite con i pastori del circondario di Aggius, prospiciente la sponda corsa. Fu una scelta imprudente e suicida:il Mamia farà il doppio gioco: interessato com’era più a ottenere la cancellazione dei suoi delitti da parte delle autorità galluresi che alla proclamazione della repubblica sarda.
Il progetto prevedeva lo sbarco in Gallura che avrebbe dovuto provocare la sollevazione della Sardegna. Un primo tentativo nel maggio 1802 fallì. Ripetuto in giungo con un manipolo di uomini, prevedeva lo sbarco del Sanna Corda ai piedi della torre di Longonsardo (l’attuale Santa Teresa di Gallura) e del Cilocco presso la torre dell’Isola Rossa. La spedizione ebbe un esito tragico: il Sanna Corda che aveva espugnato la torre e alzato la bandiera della libertà, inviando alle autorità galluresi lettere in nome della repubblica francese, fu attaccato da un piccolo corpo di spedizione inviato da La Maddalena e cadde combattendo sotto le mura della torre (19 giugno). Cilocco, tradito da Mamia, cui si era affidato soprattutto per la conoscenza dei luoghi, fu narcotizzato (con un vino oppiato) o, comunque sorpreso nel sonno e consegnato ai soldati inviati da Sassari il 25 luglio del 1802.
Secondo Giovanni Siotto Pintor invece, braccato per le campagne, con una taglia sul capo di 500 scudi, fu catturato da numerosi banditi, ecco cosa scrive in proposito “fu fermo da quattordici malandrini intesi a procacciarsi l’impunità, trascinato a d’orso d’asino insino a Sassari, flagellato orribilmente dal boia, afforcato”(10).
L’eroe sardo, fu così umiliato (fu infatti messo, sanguinante e pesto, su un asino e fatto entrare prima a Tempio e poi a Sassari, – dopo aver attraversato molti altri paesi sempre sul dorso di un asino – fra la folla accorsa a vedere lo spettacolo e una ciurma di giovinastri prezzolati che fischiavano e gridavano), colpito da una frusta, di doppia suola intessuta con piombo, a tal punto che non può rimanere né in piedi né coricato ma carpone. Una fustigazione deprecata persino da uno storico conservatore come il Manno che scrive ”alla mano del manigoldo non fu lasciato l’arbitrio di quella naturale umanità che poteva sorgere anche nel cuore di un carnefice. Egli fu talmente aizzato da quei notabili andategli incontro, che il carnefice stesso ebbe a mostrarsene indispettito. Il barone maggiore soprannominato il Duca dell’Asinara, dal balcone del suo palazzo lanciava parole di crudele beffa contro l’infelice frustato…”.
La supplica che gli venga comminata la pena del carcere perpetuo o il perpetuo esilio è respinta da Placido Benedetto di Savoia, Conte di Moriana, (fratello del re di Sardegna Carlo Emanuele IV). Cedendo – scrive Carta Raspi – ai suoi istinti sbirreschi..
Insieme all’altro fratello, Carlo Felice, vice re e re ottuso e famelico, (sarà soprannominato Carlo Feroce dal poeta e patriota piemontese Angelo Brofferio) l’infame Conte di Moriana ricorrerà dopo il generoso tentativo del Cilocco e del Sanna Corda, a una repressione violenta e brutale nei confronti dei Sardi patrioti, anche vagamente sospettati di aver preso parte alla tentata insurrezione.
Il Cilocco fu quindi condannato a morte l’11 agosto del 1802, e il 30 pur disfatto per le torture subite, recuperata la propria lucidità, con animo forte – scrive il Martini – saliva sulla forca.
“Non gli fu neppure risparmiata la tortura della corda e delle tenaglie infuocate. Il corpo verrà bruciato e le ceneri saranno disperse al vento, la testa conficcata sul patibolo i beni confiscati” (11).
“Questo supplizio – ricorda Fabritziu Dettori in una bella ricostruzione della figura dell’eroe sardo – gli fu inferto con così zelo che dalle spalle e dalla schiena gli aguzzini riuscivano a strappargli la pelle a «lische sanguinanti». Sollevato sul patibolo semi vivo, fu impiccato e, da morto, decapitato. Il suo corpo fu bruciato e le ceneri sparse al vento. Ma la malvagità savoiarda, non sazia, sancì, in tributo alla causa antisarda, che la testa del Patriota sardo fosse rinchiusa dentro una gabbia di ferro ed esposta, a scopo intimidatorio, all’ingresso di «Postha Noba», mentre nelle altre «Porte» della città i lembi della sua carne completavano l’orrore. Il macabro monito rimase esposto per giorni e giorni…” (12).
”Giustizia sabauda e spettacolo per la popolazione sassarese che assistè in bestiale gazzarra alla fustigazione e alla impiccagione”(13), commenta amaramente Raimondo Carta Raspi.
Macabro ammonimento, aggiungo io, nei confronti dei Sardi, da parte dei più crudeli, spietati, insipienti, famelici e ottusi (s)governanti che la Sardegna abbia avuto nella sua storia, i Savoia.
Cilocco aveva 33 anni. Un grande eroe e patriota sardo, sconosciuto e dimenticato, Est ora de l’amentare!