Lo scorso anno ricorreva il settantesimo anniversario della morte del dottor Francesco Dore, nativo di Olzai, medico condotto di Orune per un trentennio, giornalista e deputato al Parlamento. Nell’imminenza del centenario della partecipazione dell’Italia alla Prima guerra mondiale, durante la quale l’on. Dore difese gli interessi dei suoi conterranei dai banchi di Montecitorio e militò come capitano medico, si vuole riproporre la sua figura esemplare di medico, giornalista e politico, oltre che di cattolico impegnato nella vita civile.
1° Puntata - La casa di Drovennoro, tra pastori, notai e medici
Giovanni Maria Francesco Emanuele Dore, chiamato sempre Francesco anche nei documenti ufficiali, nasce a Olzai il 29 dicembre 1860 da una famiglia di proprietari terrieri, che abitualmente avviavano agli studi i figli maschi più promettenti perché diventassero medici, notai e avvocati. Era una forma di emancipazione, finalizzata principalmente ad accrescere il lustro della famiglia, ma non a sovvertire l’essenza dell’economia domestica, da generazioni dipendente esclusivamente dalla pastorizia. Per i piccoli possidenti della Barbagia infatti, il commercio del formaggio e della lana, gli affitti dei terreni da pascolo costituivano la parte preponderante del bilancio familiare, non certo i proventi derivanti dall’attività professionale o dallo stipendio dei figli medici, insegnanti o sacerdoti perché - secondo l’opinione della figlia Grazia Dore - questi rimanevano fondamentalmente pastori-medici, pastori-insegnanti, pastori-sacerdoti.
Il padre è Giovanni Pietro Dore (1822-1884), già medico condotto a Orune, decorato per la sua attività di vaccinatore contro il vaiolo. Dotato di “occhio clinico”, è molto stimato dai suoi compaesani perché d’animo buono e sempre disponibile: oltre che curare sa anche confortare i suoi assistiti. La madre è Raffaela Satta, figlia del notaio Sebastiano e nipote di un altro notaio Giuseppe Gavino Satta. In una foto di famiglia dei primi del ‘900 mamma Raffaela, piccola e magra, ricorda la Madre dell’ucciso di Francesco Ciusa: volto minuto inciso dalle rughe e incorniciato dal fazzolettone barbaricino, fa intuire un forte temperamento ma nulla svela del suo animo generoso. Largheggiava infatti così tanto nella sua generosità, sempre di nascosto, che non c’era mai un soldo in casa. Anche lei, a modo suo, aveva un “gran colpo d’occhio” ma per il bestiame: se arrivava qualche nuovo capo giudicava e sentenziava, senza mai sbagliare. Nelle belle giornate si affacciava alla porta della cucina, guardava a quale altezza si trovava il sole e diceva «è mezzogiorno», non sbagliava mai.
Francesco ha due fratelli, Pietro e Giovanni, e quattro sorelle Maria, Grazietta, Maddalena e Antonia. Pietro, nato nel 1862, è il più brillante e studia con profitto. Laureato in medicina a Cagliari nel 1888, diventa medico condotto a Olzai. Ma siccome ha il vizio di bere, il fratello Francesco interviene presso la sottoprefettura di Nuoro per farlo sospendere per sei mesi dall’esercizio professionale. Pietro entra in un grave stato depressivo e muore prematuramente nel 1899. Giovanni nasce nel 1871, si laurea in giurisprudenza ed entra in magistratura. È eletto consigliere comunale di Olzai dal 1920 al 1926. Nell’aprile di quell’anno infatti, soppressi gli organi democratici dei comuni, tutte le funzioni in precedenza svolte dal sindaco, dalla giunta e dal consiglio comunale sono attribuite al podestà, nominato con regio decreto per cinque anni e revocabile in qualsiasi momento. Giovanni Dore è un irriducibile avversario del fascismo. Per questo fu vietata la diffusione del suo opuscolo Per la strada Sedilo-Olzai-Ollolai (1938), un lavoro molto documentato, ma troppo critico verso le autorità e perciò non gradito al regime (su Giovanni Dore si rimanda al breve profilo biografico presentato da Giangavino Murgia, in questo sito: Olzai. Appunti per una storia, VIII puntata).
Alle sorelle Dore furono impartiti solo i primi rudimenti dell’istruzione elementare, in pratica saper leggere e scrivere, perché a quei tempi la prosecuzione degli studi era ammessa solo per i figli maschi. Maria, Grazietta e Maddalena non si allontaneranno mai dal paese e camperanno dalle risorse della campagna e dall’allevamento del bestiame. Della sorella Antonia, la più giovane, non rimane alcun ricordo: si sa solo che lasciò presto la famiglia per diventare suora francescana a Tunisi, suor Dorotea.
Grazietta, stravagante e vanitosa, collezionava corsetti di seta e mostrava con orgoglio le foto dei figliocci inviatele dal fronte. Nessuno in paese aveva tanti figliocci e figliocce come lei. In una casetta attigua alla sua abitazione accoglieva le ragazze nubili che restavano incinte. Dopo il parto, nel congedarle raccomandava loro di raffreddare i bollori nelle acque del fiume, nel caso fossero incappate in qualche altra tentazione peccaminosa. Nella vicina chiesa di Santa Barbara fece erigere a sue spese una cappella laterale che, ovviamente, volle dedicare alla Madonna delle Grazie.
Maddalena, invece, non dava confidenza a nessuno e aveva la mania della segretezza, al punto che quando riceveva le amiche, si chiudevano in una stanza e nessuno sapeva cosa mai avessero da raccontarsi. Come la mamma, le sue passioni erano il bestiame e l’accumulo di abbondanti provviste da donare in gran segreto ai bisognosi. Alla morte della madre, visse con il fratello Pietro, di cui non gradiva si sapesse che beveva. Maria era molto dolce e quando tentava di parlare in italiano, le sorelle la deridevano per gli strafalcioni. Era l’unica sorella maritata, aveva sposato il segretario comunale Antonio Satta, che vestiva sempre di velluto con tanto di cappello e cravatta, ma era attento e parsimonioso nell’amministrazione della cosa pubblica. Si dice che una volta, per evitare l'acquisto dell’inchiostro, l’abbia estratto da piccole bacche nere raccolte nell’orto da chissà quale pianta. Ma non lesinò nel costruire la nuova casa a due piani, con criteri architettonici moderni, che ancora oggi si erge possente nella parte alta dell'abitato, in faccia alla chiesa di Santa Barbara.
Poco più avanti, lungo la ripida salita della via Regina Margherita che porta al vecchio Monastero, sul lato sinistro si trova ancora intatta anche l’abitazione dei Dore, una di quelle case di possidenti che in Barbagia somigliano l’una all’altra. Grandi o piccole che siano, concepite per abitazione e deposito, non di rado ti accolgono con un inconfondibile sentore di grano e di formaggio. Il grande portone si apre nel cortile con la legna ben accatastata. Varcato il portoncino d’ingresso, sulla destra si accede alla stanza per il ricevimento degli ospiti: in un angolo semibuio si intravede il cassettone sormontato da una vetrina che funge da nicchia per la Madonna del Rimedio, vestita di pizzo e di un corto mantello azzurro di raso ricamato. Un saliscendi di scalette porta alla grande cucina con il camino, dove si trova anche la vecchia cassapanca sarda di colore nero oleoso, in cui si conserva la tovaglia di lino ben piegata con la provvista del pane per i servi pastori. Il primo piano è un labirinto di stanze da letto con il tavolato di legno e il sottotetto di canne. Dalla cucina si passa nel cortile con li pollaio, poi c’è la stalla per i cavalli e i buoi, e infine l’orto con frutta e verdura in abbondanza.
Nel 1872, l’undicenne Francesco Dore lascia la casa paterna perché inviato a Nuoro per frequentare il ginnasio. Sulle scale del Seminario incontra il chierico Pasquale Lutzu, il vicepreside destinato ad assumere in seguito incarichi di primaria importanza nella chiesa nuorese, per volere di ben quattro vescovi. «Io mi presentavo, piccoletto di età e di corpo – racconta Dore – tutto impacciato nell’ampia e nera zimarra di seminarista. Egli giovanotto slanciato e aitante, sotto uno splendido costume paesano – a quei tempi non si lasciava il costume se non quando si andava fuori di Nuoro, agli studi liceali –, che in quello stesso giorno doveva cedere il posto all’austera veste talare. Sin dal primo momento nacque fra noi una mutua simpatia che ci accompagnò per tutta la vita, ad onta di alcuni contrasti, di quei dissensi che intessono il destino delle nature operose e appassionate… dimostrò subito spiccate attitudini di uomo di governo. Nominato vicario generale dal compianto vescovo Demartis, seppe ammorbidire la mano di ferro con cui l’inflessibile presule avrebbe voluto imporre al clero della diocesi la stessa disciplina che aveva imposto ai frati Carmelitani del suo convento. Incline per natura all’indulgenza, ne fece larga applicazione anche dove altri avrebbero desiderato atteggiamenti di rigore». Qualche anno dopo, nelle aule «fredde e austere» dell’ex Convento francescano, con Mauro Mannironi inizia una duratura amicizia, rinsaldata dalle comuni battaglie politiche. Nella stessa scuola incontrerà anche Giuseppe Pinna, «il maggiore e migliore» degli studenti ginnasiali di Nuoro, e Salvatore Daddi proveniente da Gavoi, futuro fondatore e direttore del quotidiano cattolico sassarese L’Armonia Sarda. Infatti «bisognava diventare nuoresi per essere qualcuno, e quest’idea li spingeva a studiare, ad andare al ginnasio, al liceo e a correre anche la grande avventura dell’università» (Salvatore Satta, Il giorno del giudizio). Conseguita la licenza liceale, nel 1879 Francesco Dore si iscrive alla facoltà di medicina di Cagliari.
2 puntata - Gli anni di formazione a Cagliari
Negli anni universitari Francesco Dore entra in contatto con il Circolo di San Saturnino, organizzazione cattolica fondata nel 1871 da un gruppo di giovani studenti dell’aristocrazia e borghesia locali, tra cui Enrico Santjust, che ne assunse la presidenza e il teologo Francesco Miglior. Quest’ultimo non ebbe riguardi nell’attaccare il canonico Giovanni Spano, personaggio di spicco del capitolo metropolitano, per avere fondato il “controcircolo” massonico Giuseppe Manno in opposizione a quello di San Saturnino. Del circolo in odore di massoneria fu presidente il neolaureato in giurisprudenza Luca Canepa allora ventunenne, futuro vescovo di Nuoro, prima della sua trasmigrazione nel Circolo di San Saturnino, e per questo confessò in seguito «che per qualche tempo fosse stato illuso da un falso liberalismo».
Nei primi anni il Circolo di San Saturnino conosce un rapido sviluppo. Infatti, oltre agli studenti cattolici, si associano numerosi esponenti del clero, ma anche commercianti, artigiani e operai. Questo sodalizio rappresenta il nucleo fondamentale del movimento cattolico-intransigente sardo, votato a contrastare il clima anticlericale dilagante in quell’epoca. L’educazione dei soci alla pronta e coraggiosa professione di fede, il rispetto e la sottomissione al romano pontefice, costituiscono i capisaldi delle norme statutarie. La formazione religiosa e culturale, l’attività giornalistica, la costituzione di una biblioteca circolante, si intrecciano con l’impegno pietistico-caritativo e con la partecipazione alle pubbliche manifestazioni religiose e ai pellegrinaggi. Il peso attribuito all’aspetto intellettuale e religioso con il passare degli anni serve a caratterizzare e a differenziare meglio i diversi momenti vissuti dal Circolo, che conosce fasi alterne di vitalità e di crisi. Al debutto promettente dei primi anni, segue infatti un periodo di decadimento nella seconda metà degli anni ’70. La partecipazione di Francesco Dore coincide con una breve stagione di rinascita. Ammesso come socio attivo il 22 maggio 1882, Dore viene eletto vicepresidente appena un mese dopo. Dai verbali delle sedute risultano iscritti al Circolo il fratello Pietro all’epoca studente di medicina e l’amico Salvatore Daddi, passato da Nuoro al Liceo Dettori di Cagliari. Ma c’è di più: nella seduta del 3 luglio 1882, si propone l’ammissione – come soci partecipanti – di Raffaela Satta madre di Francesco Dore, del canonico nuorese Pasquale Lutzu, di don Giovanni Daddi futuro parroco di Olzai e di Orune, del canonico Agostino Marchi nativo di Olzai.
Nella lettera circolare del 30 luglio 1882 inviata ai vescovi sardi, i soci del Circolo chiedono sostegno morale e finanziario per Il Risveglio, il nuovo periodico che sta per nascere con l’intenzione di parlare non solo alla chiesa cagliaritana ma a tutte le diocesi della Sardegna. Il Risveglio presenta ufficialmente il programma editoriale all’inizio di settembre, con un appello ai “buoni cattolici” sardi perché si facciano promotori di molti abbonamenti al giornale e mandino corrispondenze dalle diverse località dell’isola. Il ventiduenne Francesco Dore ne assume la direzione, affiancato da Potito Depau e da Giuseppe Borgna. Nel numero di saggio del 1 ottobre si legge la presentazione di Eliséo – pseudonimo di Francesco Dore – che si dichiara pronto a «raccogliere la parte più bella sin dalle parole e dagli atti degli avversari; del poter onorare negli amici, più che la comunanza delle idee, la coraggiosa verità che professino; del poter rispettare negli avversari, fra la lotta delle opinioni discordi, l’onesta sincerità che gl’ispiri».
Nella sua lunga carriera giornalistica, Dore avrebbe fatto ricorso sovente a pseudonimi richiamanti il paese natale o località limitrofe (come Drovennòro e Murùi, rispettivamente il rione in cui sorge la casa paterna e il quartiere confinante a monte, e Su Cràpinu nel bosco di Ollolai). Persino Eliséo, al di là del riferimento biblico – «Ma tu, o Eliseo vero, tu perdona l’indegno uso ch’io faccio del tuo nome...» – è assonante con Elisèa, quartiere periferico di Olzai. Rende onore al canonico Francesco Miglior, collaboratore del Risveglio e predicatore in duomo, quantunque non sempre parli «a modo da incontrare la piena approvazione dell’uditorio, e noi lo diremo francamente quando non incontri la nostra».
Ma il passo più sorprendente dell’esordio di Francesco Dore è la commemorazione di Antonio Giuseppe Satta Musio, già deputato al Parlamento e consigliere di Corte d’appello, poiché il personaggio era considerato un importante esponente della massoneria. «Intorno alla sua tomba forse per qualcheduno s’addirebbe meglio il silenzio; a noi invece pare bene dimenticare quali fossero le opinioni religiose del morto, mentre ferveagli in cuore la giovinezza». E riferisce che sul suo feretro non erano posate le insegne massoniche, ma solo «il segno augusto di nostra Redenzione», con evidente riferimento alla croce. Dore lo annovera tra i più insigni figli di Bitti, il paese che dette i natali anche a suo zio Giuseppe Musio e a Giorgio Asproni. «Tutti e tre vissero estranei alla nostra fede religiosa; ma Antonio Satta Musio aveva da molti anni in capo al suo letto un’effigie della Madonna... E sia pace all’anima tua, o galantuomo, povera vittima d’ogni umana perfidia: e ricorra sempre la benedizione degli onesti alla piccola tomba che rinchiude le tue ceneri modeste, o nostro vecchio patriota».
Nel primo numero del 20 ottobre compare un articolo intitolato Le condizioni e i bisogni del nuorese, siglato F.D, che prende spunto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta del 1869, per constatare che da quel periodo al momento in cui si scrive la situazione non è mutata. Dore lamenta che non si è adempiuto al «dovere supremo» che sta in capo a un Governo di una nazione civile, di migliorare le condizioni delle sue province. È colpa anche del Governo se il Nuorese è diventato «un nido di povertà angustiante e di ribalderia feroce», dove le sue braccia sovente hanno disertato «i campi di lavoro per accrescervi una guerra di assassini e di rapine». Lo stesso peggioramento della natura idrogeologica e del clima è da imputare a precise responsabilità. In passato il clima del Nuorese era salubre nelle zone montane malgrado i rigori dell’inverno, così come lo era in pianura, dove scorrevano «pure e fresche acque» provenienti dai terreni montagnosi, che contribuivano a mitigare l’afa estiva. Ma da quando furono turbate le naturali armonie del suolo, da quando l’ingordo e cieco egoismo del governo lasciò che si abbattessero le piante delle foreste secolari, venti e acque impetuose, siccità inaudite, decimarono i prodotti della terra, decimarono la vita ai coltivatori, ai pastori e ai loro animali.
Francesco Dore denuncia anche la piaga degli incendi, ad opera di criminali che rimangono impuniti, poiché l’impunità «s’è in costume di largire ad ogni reato in genere, a questi in particolare». È convinto che il clima sia uno dei fattori «del sensibile indebolimento delle nostre forze vitali, ma non il principale né uno dei maggiori», perché è soprattutto l'inadeguata alimentazione la principale causa della debolezza costituzionale della popolazione.
Il n. 7 del Risveglio del 26 novembre è sottoposto a sequestro dalla procura cagliaritana, per «qualche aspra parola» a commento del discorso della Corona che «mirava ad offendere la sacra persona del Re e a distruggere il nostro regime monarchico costituzionale». Per giustificarsi e alla ricerca di «un parere spassionato», la direzione del Risveglio invia l’articolo incriminato a cinque colleghi della «stampa continentale». A dire il vero i toni dell’articolo in questione – che provocarono il sequestro del giornale – non possono definirsi pacati. Il discorso del re è infatti visto come «uno dei soliti ignobili artifizi di Depretis» e parla di pace «senza argomentare contro i timori di guerra», esalta la pubblica ricchezza senza accennare alla miseria crescente.
3 puntata - Il paese del vento
Nel resoconto per l’anno 1882, letto dal segretario Agostino Melis nella seduta del 13 marzo 1883, in presenza dell’arcivescovo Berchialla, si afferma che in tempi recenti il Circolo di San Saturnino era entrato in letargo e «menò una vita sì debole e fiacca che, in qualche momento la si poteva confondere coll’inerzia stessa della morte». Da notare che dai verbali delle sedute del Circolo nell’estate e autunno 1882, non risultano discussioni sulla preparazione del nuovo giornale, eccetto il 4 settembre 1882, quando si parla laconicamente di spesa anticipata per Il Risveglio. Fatto notevole, non vi è alcuna traccia neppure in occasione del sequestro del periodico avvenuto a fine novembre 1882. Nella seduta dell’8 marzo 1883, si ritorna sul tema un’unica volta: «Non si accordò alcun sussidio al Risveglio perché facilmente passerà in mani diverse che non avranno bisogno di verun sussidio». La dichiarazione secca, quasi perentoria, sembra suggerire un brusco cambio di rotta, in qualche modo confermato dall’editoriale non firmato del 20 marzo 1883: la nuova direzione si proclama cattolica, apostolica e romana, ma anche «monarchica senza intingoli di sorta: e soggetta ossequiente alle leggi che sono leggi»; si dichiara poi italiana e sarda «perché la Sardegna per grazia di Dio è parte dell’Italia».
Da quella data il giornale non dà alcuna indicazione della nuova direzione, solo in ultima pagina compare sempre il nome di Agostino Melis gerente responsabile. Dal marzo 1883 non figura più lo pseudonimo di Eliséo. Molti anni dopo, lo stesso Dore sulle pagine dell’Ortobene testimonierà che Il Risveglio conobbe due periodi di vita assolutamente diversi e quasi contrastanti: sorse con carattere apertamente democratico cristiano, e si mantenne tale sino a che fu redatto dal trinomio Dore-Borgna-Depau, «prese poi indirizzo di rigida intransigenza temporalistica quando andò in mani all’arcivescovo Berchialla», e in pratica divenne «organo ufficiale della Curia arcivescovile sotto la direzione di monsignor Canepa».
Tuttavia la partecipazione di Francesco Dore alle sedute del Circolo – in cui ogni tanto figura come presidente - è abbastanza regolare: dai verbali risulta solo che nel primo semestre del 1885 la sua presenza alle riunioni si fa discontinua. È infatti alla vigilia della seduta di laurea, probabilmente gli impegni di studio si fanno più pressanti: infatti conseguirà il grado accademico con il massimo dei voti il 13 luglio 1885.
Ancora studente, nel 1884 era riuscito a far pubblicare un breve saggio contro il giudizio severo sulle università sarde espresso da un docente dell’università di Lipsia. Dore elogia le «piccole università» periferiche dove è più facile la discussione dei casi clinici, in quanto il numero ridotto degli studenti «permette al professore di seguire per mano i loro primi passi nella pratica».
Sugli anni di scuola a Cagliari, Francesco Dore racconterà un gustoso episodio di cui fu protagonista sessant’anni prima e che merita di essere ricordato. In una splendida mattina d’agosto un gruppetto di studenti vocianti, tra i quali il sedicenne Francesco Dore, si era dato appuntamento sulla banchina del porto di Cagliari: «Mi erano compagni di viaggio l’indimenticabile amico e maestro mio e di un mio fratello, a Cagliari, Giuseppe Pinna, i tre fratelli Puligheddu di Oliena, i due Musio di Orosei, Vincenzo Spanu di Dorgali e Salvatore Manca di Sarule». Ad attirare la curiosità dei passanti era il loro carico «zingaresco» costituito da una dozzina di valigie e bisacce, e di altrettante damigiane vuote destinate alla provvista di buoni vini, che speravano non di comprare ma di ottenere dalla generosità delle famiglie amiche. I giovani naviganti, quasi tutti montanari della Barbagia, erano al loro primo viaggio in mare. Decisero di puntare verso Orosei, ma una furiosa tempesta scoppiata improvvisamente li sbatté sulla spiaggia di Siniscola. Da lì percorsero i circa sessanta chilometri di cammino che li separavano da Nuoro. Passando per la valle di Marreri Francesco Dore fu sorpreso e ammirato dell’azienda agricola del rettore Satta Musio di Orune, per il giardino ornato da splendidi filari di rose e fiori di ogni genere e per le volte della casa padronale affrescate da Giovanni Marghinotti, il pittore sardo più rinomato dell’epoca.
Pochi mesi dopo il conseguimento della laurea, nel dicembre 1885 Francesco Dore è vincitore del concorso per la condotta medica di Orune, sede molto ambìta, perché il comune conta 2500 abitanti ed è detentore di un cospicuo patrimonio boschivo, dal cui sfruttamento può ricavare annualmente notevoli introiti a favore del civico bilancio. Il dottor Dore può infatti disporre di un ambulatorio moderno, tra i più forniti e attrezzati del circondario, dove è possibile preparare i prodotti galenici meticolosamente triturati e mischiati sulla lastra di marmo e poi pesati sulla bilancina di precisione.
Il villaggio «con le sue casette rossastre fabbricate sul cucuzzolo grigio di una vetta di granito, con le sue straducole ripide e rocciose, parve emergere dalla nebbia come scampato dal diluvio. Ai suoi piedi i torrenti precipitavano rumoreggiando nella vallata, e in lontananza, nelle pianure e nell’agro di Siniscola, le paludi e i fiumicelli straripati scintillavano ai raggi del sole che sorgeva dal mare». Così vedeva Orune Grazia Deledda quando vi ambientò Colombi e sparvieri (1912), proprio negli anni in cui Francesco Dore operava come medico condotto. A Orune è il vento il protagonista, il vero dèmone quando avvolge in un impeto le case, e tenta di penetrarvi dai pertugi delle finestre ben serrate. Allora per le strade non s’incontra anima viva. Per questo gli uccelli hanno una stagione brevissima, solo le lucertole si trovano a loro agio.
Ma nella seconda metà dell’Ottocento Orune è un crogiolo di contraddizioni e di contrasti irriducibili. Un grave motivo di conflitto nasce proprio intorno all'ingente patrimonio boschivo comunale, sul cui sfruttamento sorgono insanabili rivalità tra pastori e contadini, oltre a contenziosi tra amministrazione comunale e governo centrale. Nello stesso periodo a reggere la parrocchia si avvicendano sacerdoti incredibilmente inadatti al ruolo, sovente in aperto contrasto con il loro vescovo, che dal pulpito arrivano persino ad istigare i fedeli alla violenza, all’odio e alla ribellione verso l’autorità costituita.
Il rettore Satta Musio - circondato da un’aura di leggenda nera - fu vittima di un efferato assassinio al ritorno dalla tenuta di Marreri, quella stessa tanto ammirata dal giovane studente Francesco Dore. E quando un successore di Satta Musio, il prete Fedele Nieddu fu destituito per indegnità, sorprendentemente a Francesco Dore fu affidato l’incarico di regio commissario per l’amministrazione della chiesa parrocchiale. In pratica il dottor Dore non si limita a svolgere il proprio compito istituzionale di medico condotto, ma diventa una figura di primo piano nella vita civile della comunità orunese. Gode della fiducia della popolazione su cui esercita autorità morale, è prudente nell’agire e mostra particolare sensibilità verso i temi sociali. È uno degli artefici delle paci di San Giovanni del 1897, che mettono fine ai dissidi fra le opposte fazioni del paese e suggellano la riconciliazione tra Orune e Bitti.
Quasi sul finire del secolo Francesco Dore sposa Maria Giannichedda, giovane maestra di Sassari giunta da poco a Orune. Maria proviene da una famiglia di muratori socialisti, parteggia apertamente per la causa del popolo, ma è cattolica di fede genuina. Sarà prozia di Antonio Pigliaru da parte materna.
E così una mattina d’estate del 1898, il trentottenne Francesco Dore e la ventiduenne Maria Giannichedda si presentano davanti al sacerdote che benedice le loro nozze. Dopo una semplice colazione, il marito prende congedo dalla sposa per qualche ora perché deve fare il giro dei malati: a quei tempi non era facile trovare un sostituto. Questa sarebbe stata la prima di una serie di rinunzie, alle quali Maria si sarebbe sempre adattata.
È ben strano questo medico di Orune che fa parte della Confraternita di Santa Croce, prende in sposa un’ammiratrice di Turati, non manca mai alla messa cui partecipa «sempre in piedi eccetto che alla predica», ma è impaziente di correre a Dorgali per salutare calorosamente Felice Cavallotti.
A Orune nasceranno i loro sei figli. Giampietro (1899-1974), Peppina (1900-1982), Raffaela (1905-1972), Antonio (1906-1997) e Grazia (1908-1984). Il terzogenito Giuseppeddu morirà in tenera età. Tutti sono destinati a diventare figure di primo piano in ambito giornalistico, politico, religioso e letterario.
4 Puntata – Casa, famiglia e passione civile
La casa presa in affitto a Orune da Francesco Dore era molto diversa da quella di Olzai, dove c’era l’orto dietro la porta di cucina, la stalla e le galline, la tanchita e la nonna che attendeva sulla soglia il ritorno del carro a buoi e del pastore con le bisacce piene. La casa di Orune era invece piccola e con le finestre anguste. Il figlio Antonio racconta che faceva molto freddo e quando il vento spaventoso ululava e i vetri delle finestre tremavano, il babbo «sedeva su una sedia bassa con le spalle rivolte al fuoco». Ai lati della porta d’ingresso stavano due sedili in pietra. «La cucina, dove stavamo tutto il giorno, aveva una sola finestra, messa storta sul muro; quel muro, invece di essere diritto, ad un certo punto veniva avanti, nello stesso senso della finestra». In quella cucina a pianterreno c’era «una tavola a libro, sedie impagliate e un piccolo armadio chiuso per i piatti, le tovaglie e il pane». Attraversato un grande e vuoto stanzone si usciva sul pianerottolo, con la vecchia porta a un battente, munita di molteplici congegni di chiusura. Tutte le sere – al tocco della campana del tramonto – bisognava fare il giro della casa: «Giravamo cautamente… – racconterà anni dopo la figlia Peppina – passavamo nell’andito per guardare i paletti, i ganci, i chiavistelli, abbassati sulla nostra porta armata così… chissà perché? Ci assicuravamo di vederli al loro posto tutti, senza toccarli per non fare rumore. Nella stanza nostra, l’esame era più accurato… Rivedo mamma che dopo la preghiera, alza la coperta del letto, apre i due grandi armadi, tocca sfiorandole le serrature della finestra… Questa sorta di liturgia aveva luogo soprattutto quando babbo era lontano per i suoi impegni politici o di lavoro. Allora i bambini si trasferivano tutti nel grande letto matrimoniale vigilato dall’immagine della Madonna».
I timori e le paure di Maria Giannichedda non erano affatto immotivati; persino i bambini avevano una chiara percezione di quanto stava accadendo in paese. Come in altri centri del Nuorese, a Orune erano sorte lotte, rivalità, vendette tra chi perpetrava ruberie e chi se ne sentiva vittima. C’erano temibili latitanti alla macchia, e quando qualcuno di questi riportava gravi ferite – in genere dopo conflitti a fuoco con i carabinieri – non esitava a ricorrere alle cure del medico con assoluta fiducia, oltre che per la competenza, per il rigore con cui avrebbe saputo conservare il segreto professionale. Ma Francesco Dore non operava passivamente, il suo stile non avrebbe tollerato alcuna ambiguità. La sua personalità battagliera – oltre il carattere e le convinzioni morali – non dava tregua ai malfattori, sia pure in un ambiente di vendette e di autentico pericolo per l’incolumità personale e dei familiari.
Le figlie raccontavano che la casa di Orune aveva un ingresso secondario sul retro, quasi nascosto, dove chiunque poteva andare a bussare, come quando qualche bandito ferito chiedeva soccorso. La porta si apriva sempre e non di rado era offerto un giaciglio per trascorrervi la notte. «Domattina, però, appena albeggia te ne vai da qui. Io ti concederò un breve lasso di tempo perché tu possa allontanarti… poi, mi recherò in caserma ad avvertire l’Arma del tuo passaggio». Una vigilia di Natale trovarono nel giardino un piccolo capriolo lasciato in dono, un’altra sera un forestiero portò ai bambini un muflone: «Compresi che non era una bestia comune, come le altre – rivelò molti anni dopo Antonio Dore – e che il donatore aveva qualcosa di strano, doveva avere chissà quale timore».
Un altro episodio, alquanto sconvolgente, fa parte dei ricordi di Peppina. Qualche volta toccava al medico raggiungere il rifugio dei banditi, per soccorrere uno di loro intrasportabile o per trattare la tregua o la cessazione di intollerabili ribalderie. Era una di quelle missioni ad altissimo rischio che facevano impallidire il volto della mamma che, pur sopraffatta dalla paura, prendeva una discutibile decisione. Agghindava Giampietro e Peppina, i figli più grandi, come se dovessero uscire per una visita di gala e li metteva come angeli custodi accanto al marito. Così non temeva più. Per rispetto verso i due innocenti, i banditi avrebbero risparmiato il marito: onore di bandito.
Peppina ricorda che in uno di quei rocamboleschi incontri, giunta con il babbo e il fratellino alle soglie del nascondiglio, ne vide balzare fuori due giovani scattanti come cerbiatti. «A me sembravano due figure appena uscite dalla scatola: i colori dei loro bei costumi erano così vividi, che a me pareva gridassero». Il babbo fece allontanare un poco i due figlioletti per intavolare una trattativa segreta, probabilmente una resa senza condizioni. A un tratto si udì un fruscio. Chi poteva essere in quella solitudine? I due uomini, appena usciti dal rifugio, ebbero un guizzo e imbracciarono i fucili che avevano deposto tra il fogliame. Peppina ne vide luccicare le canne.
Nell’ottobre 1889 Francesco Dore è candidato ed eletto per la prima volta consigliere provinciale di Sassari per il mandamento di Fonni Gavoi: sarà confermato in quella carica fino al 1904. Negli anni di Orune si farà più intensa la sua collaborazione ai giornali, soprattutto con La Nuova Sardegna, ma anche con La Sardegna Cattolica. È membro del Consiglio provinciale scolastico e sarà eletto presidente dell’Ordine dei medici della provincia di Sassari. Un giorno è lui ad accogliere festosamente Grazia Deledda, con cui intratteneva rapporti di affettuosa amicizia risalenti agli anni dell’infanzia. La Deledda segue con passione le cronache giudiziarie del tempo e si reca a Orune alla ricerca di personaggi cui ispirarsi per il nuovo romanzo Colombi e sparvieri.
Nel settembre 1908 accade un fatto tragico e inaspettato. L’avvocato e parlamentare nuorese Giuseppe Pinna - padre del futuro penalista Gonario - è ferito mortalmente nella via principale di Nuoro, sotto i colpi di rivoltella di un suo cliente in preda a raptus di follia. Nel collegio di Nuoro sono indette subito elezioni suppletive: Francesco Dore presenta la candidatura come cattolico radicale. Il suo rivale è un liberaldemocratico, l’avvocato Antonio Luigi Are – originario di Orani e più volte sindaco di Nuoro –, candidato ministeriale fortemente voluto da Francesco Cocco Ortu.
Dore è sostenuto dalla popolazione di Orune, dal quotidiano La Nuova Sardegna, dall’Associazione nazionale medici condotti e dei Maestri elementari. La sua candidatura comincia a destare preoccupazioni in coloro che si sentono minaccianti nei loro interessi, e montano perciò una campagna di stampa per aizzargli contro la pubblica opinione, architettando un piano d’attacco in grande stile. A più riprese è accusato di abusi, malversazioni, scarso senso del dovere nell’adempiere le funzioni di medico. Ma Francesco Dore non si perde d’animo, la sua difesa è circostanziata e persuasiva, ribatte colpo su colpo.
È osteggiato dalle potenti famiglie di Nuoro, che non ammettono un candidato proveniente dai paesi. «Quelli che facevano politica, i candidati, erano tutti dei paesi: di Orune, di Gavoi, di Olzai, di Orotelli, persino di Ovodda, quei minuscoli centri (biddas, ville) lontani quanto le stelle l’uno dall’altro, che guardavano a Nuoro come la capitale; paesi di pastori, di contadini, di gente occupata a contare le ore della giornata, ma i cui figli avevano scoperto l’alfabeto, questo mezzo prodigioso di conquista, se non altro di redenzione della terra arida, avara» (Salvatore Satta, Il Giorno del giudizio).
Pochi sostengono la candidatura di Francesco Dore, per lo più non nuoresi, ma originari di altri centri barbaricini. In compenso gode di grande popolarità a Olzai, Gavoi, Ollolai, Sarule, Orani e Dorgali. Le più influenti famiglie di Nuoro si schierano a favore dell’avvocato Are, che al ballottaggio vince le elezioni sia pure di stretta misura. La campagna elettorale si svolge però in un clima di violenze e sopraffazioni da parte dello schieramento governativo. Dall’Archivio segreto vaticano risulta persino che il vescovo di Nuoro mons. Luca Canepa – immemore dell’antica militanza a fianco di Francesco Dore nel Circolo di San Saturnino – sostiene il candidato liberale Are, per il quale chiede alla Segreteria di stato la sospensione del non expedit (ovvero, il divieto ai cattolici di partecipare alle elezioni e alla vita politica).
Nei mesi successivi Francesco Dore, colpito da una grave malattia, lascia Orune per sottoporsi alle necessarie cure e decide di non candidarsi alle elezioni del giugno 1909 per il rinnovo del Parlamento: vuole evitare che la sua malattia possa indebolire la causa del proprio schieramento politico. Anche in quella occasione la campagna elettorale sarà caratterizzata da violenze e scorrettezze da parte dello schieramento avversario, che risulterà vincitore con il suo rappresentante Are.
5 puntata – Vita nuova a Roma
Quando a Orune fu deciso di dividere il salto comunale, giunse da Nuoro Attilio Deffenu che – da buon socialista sindacalista – pur essendo un difensore della proprietà collettive, «parlò in piazza nel suo bello e vigoroso dialetto Nuorese, per persuadere che soltanto la quotizzazione dei terreni comunali avrebbe potuto dare grande impulso ai miglioramenti agrari desiderati dal Paese. Le idee dottrinali lo avrebbero dovuto indurre a parlare diversamente; ma la sincerità gli imponeva di desiderare in Orune l’avvento dei piccoli proprietari». Francesco Dore rimase incantato dalla «seduzione che esercitava sulle folle Attilio Deffenu, quando, lasciando la lingua italiana, imprimeva alle sue parole maggiore vigorìa e fierezza, con le frasi incisive dello schietto dialetto natìo che egli sapeva adoperare in maniera meravigliosa, con quell’accento secco, duro, imperioso che dà al dialetto del capoluogo l’autentica impronta dell’antico idioma latino».
È sempre Dore a raccontare che Deffenu «aveva intelligenza chiara, ingegno pronto, lo spirito assai combattivo. Il problema più astruso acquistava alla luce della sua intelligenza una straordinaria limpidezza… La prontezza del suo ingegno si manifestava particolarmente nelle improvvisazioni comiziali. Teneva testa a qualsiasi avversario; non v’era interruzione alla quale non sapesse contrapporre una botta bene assestata per quanto cortese: non obiezione che non sapesse ribattere con impetuosa energia di argomentazioni, o una vena di gentile umorismo ereditata dalla madre ch’è donna di nascoste doti spirituali e virtù eccezionali».
Deffenu era un nuorese innamorato di Nuoro. «Quando parlava della sua città materna, prendeva l’animo, il linguaggio, direi quasi il pennello di quell’altro adoratore di Nuoro che fu Antonio Ballero. Avrebbe voluto essere pittore, per eternare i cari lineamenti di sua madre; per poter avere dinanzi agli occhi - sempre e ovunque egli andasse – i monti, le valli, la luminosità del cielo e lo splendore dei tramonti di Nuoro... Date uno sguardo alle corrispondenze che egli scriveva dalla Sardegna per vari giornali del Continente, troverete che per nove decimi, riguardano avvenimenti, cose e problemi di Nuoro».
Nelle elezioni del 1913 Francesco Dore presenta nuovamente la candidatura, in contrapposizione all’onorevole Are e al candidato d’opposizione Menotti Gallisai. Visita molti paesi del Nuorese accompagnato dai suoi sostenitori. Gode della simpatia di Attilio Deffenu che - pur non sostenendo il suo schieramento politico - lo difende dagli attacchi degli avversari. E dire che quattro anni prima lo stesso Deffenu l’aveva simpaticamente definito «clerico-cavallottiano» nonché «repubblicano a Sassari e prete a Orune». In quest’ultima tornata elettorale fu a fianco di Dore nei comizi tenuti nei cinque comuni del mandamento di Bitti, insieme con «Offeddu, Bandino, Gonario Delitala, Bernardino Sirca e Satta Marchi; il dottor Meloni di Mamoiada, Giuseppe Deffenu, il professor Andrea Marcialis».
Francesco Dore sembra avere fatto tesoro dell’esperienza vissuta nella precedente campagna elettorale. Soprattutto il suo programma riesce a cogliere i segnali di cambiamento che anche in Sardegna cominciano a delinearsi: le idee socialiste che si diffondono negli ambienti operai e minerari dell’Iglesiente; il malcontento degli uomini mandati in Africa a combattere una guerra a loro estranea; l’insofferenza popolare per l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Propone perciò la riduzione delle spese belliche, pensioni di vecchiaia per uomini e donne; diminuzione dell’imposizione fiscale per i meno abbienti e applicazione dell’imposta progressiva sul reddito. Questa volta Francesco Dore ne esce vincitore e una mattina di novembre del 1913 fa il suo ingresso trionfale a Nuoro, scortato da una guardia d’onore di cento cavalieri orunesi armati.
È giunto il tempo di partire per Roma e far sentire la voce dei nuoresi nell’aula di Montecitorio. Giampietro e Peppina sono già in età di liceo, è necessario cercar casa. Francesco Dore prende in affitto un appartamento nel quartiere Prati, dove sistema la famiglia. All’arredamento provvede la moglie, che segue la moda allora in voga nelle famiglie dei sardi trapiantati nella capitale. Mobili «di fattura sardesca» e alle pareti quadri di «autentici barbaricini», come le «teste incisive e mongoliche di Carmelo Floris e quelle sue processioni accorate e desolanti».
In quella casa si raduna un piccolo cenacolo dove - secondo Edoardo Fenu, giornalista dell’Avvenire d’Italia - «convenivano le intellettuali ambizioni di noi provinciali». Tra questi c’è anche Antonio Segni. Peppina Dore, autrice e regolatrice delle dispute dal «gusto già sicuro e scaltro», si mostra fin da allora in «una interessante armonia di silenzio e vivacità, di riflessiva pensosità e d’attività febbrile... pronta ai bei progetti e ad azioni concrete». Qualche volta il sodalizio si trasferisce a casa della Deledda, di cui Peppina è amica e assidua frequentatrice. Ospitalità rara e particolarmente apprezzata, dato che la scrittrice nuorese apre il cancello di casa solo a una cerchia di persone molto selezionata.
La collocazione politica di Francesco Dore è ben delineata in un suo documento postumo: «Feci parte alla Camera del gruppo radicale, che a torto si crede sia stato il gruppo massonico per eccellenza… Quando io andai alla Camera mi trovai di fronte ad una alternativa: sedere a destra, e non potevo perché a destra non vi era posto per le riforme sociali che credevo dovessero costituire la piattaforma della mia opera politica, o a sinistra. Rifuggivo dal centro perché vi predominava l’influsso zanardelliano... Ho improntato tutta la mia azione nella vita pubblica, amministrativa e politica alla maggiore sincerità, senza mai nascondere i miei sentimenti religiosi».
Allo scoppio della Grande guerra Francesco Dore – per quanto intimamente pacifista – è uno dei primi deputati a schierarsi apertamente a favore dell’intervento, perché sente il dovere di assumere tutti i sacrifici e le responsabilità del momento. Con il grado di capitano medico presterà servizio volontario nell’Ospedale Boezio di Roma fino a guerra conclusa, senza trascurare la partecipazione alla vita politica attiva.
Francesco Dore ebbe un ruolo decisivo, si può dire “fatale”, nell’aiutare Attilio Deffenu a raggiungere il fronte, da cui era tenuto lontano perché il Governo «temeva che egli vi volesse andare per farvi propaganda sovversiva contro lo Stato e la monarchia». Nel febbraio 1916 Deffenu è infatti bloccato nell’Ospedale di Cagliari, dove divide la stanza con Carmelo Floris che «vorrebbe lavorare per la Sardegna». A Cagliari ritrova anche il suo concittadino Francesco Ciusa «che mi sembra lavori, ma anche senta il peso della stanchezza», e Mario Delitala «giovine e ardente, soldato di sanità». In una lettera del giugno 1917 Deffenu chiede allo «stimatissimo amico» delle antiche battaglie «di fare qualche pratica perché quei precedenti non abbiano a costituire un ostacolo alla nomina» di aspirante ufficiale, per essere poi inviato «lassù dove farò con molto piacere alle schioppettate con gli austriaci». E alla fine Francesco Dore riesce a convincere il generale Alfieri - allora sottosegretario al Ministero della guerra - «soltanto dopo avergli fatto garanzia che Attilio Deffenu avrebbe fatto al fronte il suo dovere di soldato, di patriota, e non la propaganda di un sovversivo».
Nel frattempo Francesco Dore fu presidente del gruppo medico parlamentare e membro della Commissione Malariologica al Ministero dell’Agricoltura; in anni successivi assunse anche la presidenza della Società di Medicina Legale di Roma.
6 Puntata - Un barbaricino a Montecitorio
Nelle due legislature dal 1913 al 1921, Francesco Dore sarà promotore di 140 interpellanze e interrogazioni, oltre che firmatario di una decina tra proposte e disegni di legge, con cui difese i diritti fondamentali della Sardegna. Nei discorsi e interrogazioni in aula i temi di carattere strettamente medico non furono gli unici dibattuti. Affrontò infatti gli annosi problemi della sua terra, ma anche questioni di carattere generale di stretta attualità che riguardavano l’intera nazione, in quegli anni alle prese con una grave crisi socioeconomica aggravata dalla partecipazione al primo conflitto mondiale. I suoi interventi non sono mai frutto d’improvvisazione ma sempre approfonditi, non di rado corredati da copiosa documentazione e da rilievi statistici.
Nel marzo 1917 l’onorevole Dore chiede maggiore attenzione ai bisogni e alle sofferenze della Sardegna, che assolve i doveri verso la patria non solo con l’eroismo dei suoi soldati, ma anche con i sacrifici ignorati della dura vita nelle campagne, dove si campa di stenti e di privazioni. Reclama perciò una maggiore razione di pane per i pastori e gli agricoltori sardi, che si nutrono di solo pane per gran parte dell’anno. Infatti nei comuni di montagna non c’è stata produzione di grano, e quello requisito vi giunge con notevole ritardo. Dopo anni di privazioni causate dalla guerra, ci fu pure la proibizione dell’acquisto di grano o dello scambio di esso con altri generi alimentari di prima necessità come fagioli, patate, olio, formaggio. Per tale motivo giudica inumano «l’arrestare e sottoporre a detenzioni preventive questi disgraziati che sarebbero colpevoli non di seguire scopi di lucro ma di non voler lasciare senza pane le loro donne ed i loro figli».
La tesi fondamentale – più volte ripetuta da Francesco Dore – è che la Sardegna è «soprattutto una regione di pastori più che di agricoltori. L’hanno voluta e la vogliono così il clima, la natura del suolo, ed anche le secolari tradizioni della popolazione». L’agricoltura non può essere la prima industria dell’Isola, in quanto la coltura intensiva può riguardare solamente un quinto del territorio dell’Isola, rappresentato essenzialmente dal Campidano di Cagliari e di Oristano. Gli altri quattro quinti sono costituiti da terreni di montagna, dove l’agricoltura esiste solo come sussidiaria della pastorizia, l’unica che possa essere remunerativa e tale dovrà restare per lungo tempo. Sbaglia chi crede erroneamente che la pastorizia della Sardegna «sia ancora la pastorizia errante del Medio Evo» e non ha saputo che è diventata, anche in Sardegna, una industria razionale e fiorente.
In uno dei suoi interventi, Francesco Dore propone l’esonero dal servizio militare dei pastori delle classi anziane, da lui considerati necessari ed indispensabili alla custodia del bestiame, alla mungitura del latte ed alla fabbricazione del formaggio. Ma la risposta del ministro dell’Agricoltura è netta: le disposizioni vigenti tutelano principalmente la coltura del grano e del riso, le aziende agrarie a conduzione familiare, con particolare riguardo all’allevamento del grosso bestiame, ai casari e ai mungitori, considerati lavoratori specializzati e perciò insostituibili. Poiché le disposizioni non si possono applicare all’allevamento degli ovini, «non possono venire esonerati i pastori di pecore, che non sono né direttori di aziende agricole, né operai specializzati, né coltivatori di aziende agrarie a conduzione familiare, mancando il requisito della speciale capacità tecnica ed insostituibilità».
In alta Italia la contrattazione tra produttori di formaggi e industriali fu rimessa al giudizio di una commissione mista di industriali e pastori. In Sardegna invece i prefetti, con atto d’imperio, stabilirono una soluzione tutta a favore di pochi industriali e a danno enorme della innumerevole schiera dei pastori. L’intervento dell’autorità politica in un contrasto di natura economica, non solo lede gli interessi della Sardegna, ma urta contro i criteri di politica sociale che richiedono l’assoluta neutralità del potere esecutivo nei confronti delle competizioni economiche private.
Francesco Dore chiede anche la libera esportazione del formaggio pecorino nelle province del Regno, come già concesso per l’olio d’oliva. Che cosa era successo infatti nel frattempo? Da oltre due anni il formaggio mancava nei mercati del Continente, mentre il prodotto caseario – per vessatorie restrizioni delle quali non si riusciva a trovare giustificazione - marciva nei magazzini dei produttori sardi, dopo aver perduto anche i mercati d’America.
Nell’ottobre 1918 denuncia che la censura di Cagliari impedì la pubblicazione di un suo articolo inviato al Risveglio dell’Isola, in cui rivelava che un commissario per le ferrovie – allo scopo di diminuire le difficoltà dei trasporti sulle linee ferroviarie – «avrebbe dato il non opportuno e non accettabile consiglio di diminuire le produzioni locali e specialmente quella del formaggio che costituisce la base della vita economico-industriale in tutte le campagne della Sardegna».
Nel marzo 1917 attacca la politica folle che ha denudato le montagne, ha disseccato le sorgenti, ha reso rare le piogge e scarsa l’acqua. Per la siccità ininterrotta del triennio 1912-1914 fu perduto un patrimonio armentizio di oltre cento milioni di capi. Quando le piogge sono abbondanti l’acqua diventa torrenziale e «non frenata dai boschi né da ritegni artificiali, produce inondazioni che ci devastano le campagne, il bestiame e talora pure gli abitanti». Ma il Governo ha autorizzato le ferrovie a usare legna per risparmiare il carbone: le ferrovie usano la legna, non soltanto per risparmiare il carbone che manca, ma anche per risparmiare la lignite, che non manca affatto, solo perché la lignite costa di più. Di conseguenza sono stati devastati boschi e oliveti, furono abbattuti gli stessi alberi che il Governo aveva imposto di piantare lungo la linea ferroviaria e presso le stazioni per correggere il clima malsano.
La Sardegna ha bisogno soprattutto di acqua, il problema dell’agricoltura può essere risolto solamente con la costruzione di piccoli serbatoi di irrigazione, da costruirsi in ogni angolo montano e in ogni vallata. Per questo si dichiara contrario al progetto di grandiosi bacini industriali come quello del Tirso, «che nessuno sa quando potrà essere costruito». Ma questa sua pessimistica previsione risultò errata, dato che la grande diga ad archi multipli del lago Omodeo entrò in esercizio nel 1923.
Nel giugno 1916 invoca il miglioramento del servizio sanitario nelle caserme, una cura più assidua e più attenta dei soldati, una maggiore vigilanza sulle precarie condizioni dei locali e dell’alimentazione. Tre anni dopo sollecita l’amnistia a favore dei soldati condannati come disertori, non per avere commesso atti di codardia di fronte al nemico, ma solo per avere ritardato il ritorno dalle licenze per cause spesso indipendenti dalla loro volontà. In particolare reclama un atto di giustizia verso i militari sardi, che non poterono rientrare ai loro corpi nei termini stabiliti a causa della notissima disorganizzazione dei servizi ferroviari e marittimi che afflissero l’Isola durante tutta la guerra e l’affliggevano ancora dopo l’armistizio. I soldati sardi in licenza, convalescenza, riformati o smobilitati, non riescono a rientrare nei loro comuni di residenza, così restano sparsi e dimenticati nei vari depositi del Regno. Molti soldati e ufficiali sono costretti a sostare anche per settimane nel porto di Livorno senza vitto soddisfacente e senza alloggio.
Nella stessa seduta si appella al ministro della Guerra perché sia conservata la Brigata Sassari «come tributo della riconoscenza della Nazione agli intrepidi sardi che per primi segnarono la gloria delle armi italiane».
L’anno successivo Dore dichiara che sia «supremo dovere di equità e di riconoscenza nazionale stabilire un assegno decoroso ai vecchi garibaldini, togliendo la vergogna degli assegni attuali, che corrisposti nella irrisoria somma di lire 16.55 mensili, suonano offesa alla gloriosa tradizione della quale i vecchi garibaldini sono oggi gli ultimi esponenti ben degni – in un folle periodo di bolscevismo antipatriottico – che il Paese e il Governo diano loro ogni segno di gratitudine e di venerazione».
Francesco Dore è molto sensibile alla questione dei trasporti e della viabilità nell’isola, in particolare nel Nuorese. Infatti denuncia il mancato coordinamento dei servizi delle carrozze postali sarde e porta ad esempio il percorso tra Orune e Olzai che si potrebbe fare in otto ore, ma che richiede di fatto trentaquattro ore, «un fenomeno che ha dell’inverosimile». Chiede inoltre di eliminare «l’inconveniente che si verifica in certe stazioni ferroviarie, ove la corriera postale deve attendere che arrivi un primo, un secondo, un terzo treno. La sosta non sarebbe grave quando avvenisse soltanto in centri abitati: ma è gravissima in stazioni di campagna come quella di Oniferi. L’onorevole ministro può immaginare quale disagio debba essere il sostare due o tre ore, mattina e sera, in aperta campagna sotto il sole o la pioggia. Aggiungasi che la corriera di Oniferi è la più importante dell’isola perché unisce i due estremi della linea ferroviaria centrale, la cui costruzione restava interrotta tra Sorgono e Oniferi, ma verrà completata tra poco perché il relativo progetto è stato approvato dal Consiglio superiore dei Lavori pubblici e dal Ministero del tesoro». Anche questa ottimistica previsione sarà smentita dai fatti: la linea Sorgono Oniferi non sarà mai messa in opera.
Pertanto rinunzia a chiedere nuovi servizi, ma raccomanda di migliorare quelli esistenti. Fa l’esempio dei percorsi tra Nuoro e Oliena e tra Olzai e Orani effettuati con «legni scoperti ad un cavallo» - «servizio imperfetto e indecoroso» - là dove occorrerebbero carrozze chiuse a due cavalli.
Dato che i comuni situati nella costa Orientale della Sardegna tra Tortolì e Siniscola sono completamente isolati, senza comunicazioni marittime, ferroviarie e automobilistiche, nel luglio 1917 chiede il ripristino, a qualsiasi costo, dell’approdo dei piroscafi a Dorgali, Orosei e Siniscola. Nel 1920 lamenta che, in fatto di collegamenti ferroviari, la regione montuosa del centro Sardegna sia stata la più trascurata, e pertanto avrebbe diritto all’assoluta precedenza. Per completare le linee esistenti si dovrebbero unire la Barbagia del Sud con quella del Nord, l’Ogliastra col Nuorese, e tutta la regione centrale col mare d’Oriente.
Nel 1921 chiede ragione del grave ritardo verificatosi con il piroscafo che doveva partire il 13 gennaio da Civitavecchia, salpò il 14 e giunse a Terranova Pausania il giorno successivo, dopo quattordici ore di navigazione, senza che i passeggeri trovassero la coincidenza del treno, che non attese l’arrivo della nave in ritardo. Coloro che partirono da Roma il giorno 13 «non sono potuti arrivare a Cagliari che il 16, ossia col ritardo di due giorni e dopo aver subito tutte le difficoltà, i disagi e lo sfruttamento dei facchini, dei carrozzieri, del piroscafo, degli alberghi e delle trattorie di queste soste attraverso Civitavecchia, Terranova e Macomer, e se non creda il Governo di porre fine ad un disservizio così dissennato e così disastroso».
Nel marzo 1918, in seguito al siluramento del Tripoli – il piroscafo di linea per la Sardegna – si fece portavoce dell’indignazione dei sardi che si sentivano danneggiati e dimenticati da uno Stato per il quale molti soldati sardi avevano sacrificato la vita. Alla sua interrogazione seguì l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta con il compito di accertare le eventuali responsabilità.
La prova della stima e del prestigio di cui gode negli ambienti governativi è documentata da un episodio accaduto alla fine del conflitto bellico, nel novembre del 1918, quando il ministro della guerra lo chiama a sedare un tumulto di soldati sardi, asserragliati nel Forte Michelangelo di Civitavecchia, in attesa di essere imbarcati per la Sardegna. I soldati, lasciati all’addiaccio e senza rancio, sono convinti che gli si voglia impedire il rientro a casa. L’onorevole Dore non solo riesce a tranquillizzare i conterranei rivolgendosi loro nella lingua madre, ma ottiene l’imbarco immediato per una parte della truppa e il rientro a Roma degli altri commilitoni in attesa del loro turno.
[Continua]
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