Nel suo piccolo ha stabilito un record. Gianfranco Matteoli, Ovodda 1959 ( sì, in realtà è nato a Nuoro in ospedale, ma chissene…), ha festeggito, il 6 dicembre, 26 anni dal debutto in nazionale. Quella vera, dopo 15 presenze nella giovanile. E il record sta nel fatto che nelle 6 volte in cui ha giocato, la nostra maggiore rappresentativa ha ottenuto 5 vittorie, un pareggio e non è mai stata battuta.
Era l’Italia di Vialli e Mancini (suoi ex compagni alla Sampdoria mentre Gianfranco era già passato all’Inter) e Vicini era il Ct. Ma era soprattutto l’Italia del Principino Giannini, che a ben vedere più di Gianfranco aveva solo un bacino enorme come Roma a trainarlo. “Il regista qualunque” era stato definito il romanista da uno che di calcio se ne intendeva come Sandro Ciotti che parteggiava spudoratamente per il sardo. Ma nonostante il radiocronista fosse uno il cui pensiero contava, Vicini non si sognò mai di fare uno sgarbo alla Roma per imporre l’ovoddese che di lì a qualche anno avrebbe pilotato l’Inter in cabina di regia a vincere lo scudetto dei record. “Sono scelte, non ci vedo niente di strano – commenta a distanza di tanti anni Mat – però è vero che Ciotti mi stimava tanto e non faceva nulla per nasconderlo”.
E pensare che Matteoli nell’estate del 1975 era stato bocciato dopo due provini nel Cagliari. La cosa in un certo senso mi riempie di orgoglio e cinicamente non manco mai di sottolinearla al mitico capitano, perché per i casi cronici di incompetenza di cui è il calcio può annoverare una vasta aneddotica, quella stessa estate in via Tola numero 30 prepararono un cartellino a nome Giovanni Boi, classe 1961, meglio noto come Nanni, per la stessa squadra allievi per cui era stato bocciato il più anziano Matteoli.
“In realtà non ricordo bene come andarono le cose – dice ridendo Gianfranco, da 13 anni dirigente responsabile del settore giovanile del Cagliari – Fatto sta che ci rimasi male e presi una decisione non facile: a 15 anni cercai fortuna al Nord ed emigrai a Cantù. Sì, proprio Cantù che giocava in serie D. Partii all’avventura perché non sapevo francamente dove fosse quel posto, né quale fosse il campionato di appartenenza. Fui fortunato perché nei campionati giovanili affrontammo più volte il Como e lì mi notò Mino Favini, un’istituzione a livello giovanile, che mi portò in riva al lago”. Favini, che tra Como e Atalanta ha portato in A un centinaio di ragazzi, è ancor oggi, a 76 anni, una sorta di totem cui tutti si rivolgono quando si tratta di trattare i temi del calcio giovanile, e le sue lezioni a Coverciano sono sempre tra le più seguite dai tecnici giovani e affermati.
Ovviamente a Cantù non in prima squadra ma tra i ragazzini, anche se prima della fine dell’anno quell’ometto alto un soldo di cacio trovò il modo di debuttare giocando per 3 volte in serie D.
“Di quel periodo ho ricordi sfuocati eppure bellissimi. Per esempio non saprei dirti quando giocai la prima volta in serie D che era un bel campionato per un quindicenne (era la quarta serie, quella che poi sarebbe diventata la C2), però ricordo benissimo una trasferta nel Lazio al trofeo Mancini. I tifosi sugli spalti ce l’avevano soprattutto con me perché ero piccolo e con Nicoletti perché alto e magrissimo. A me urlavano …A dieci, quanno le cacci fuori le gambe dai pantaloncini?.
A Nicoletti invece gli urlavano: …A lungo, mettite contro sole così vedemo la radiografia. Noi in campo li sentivamo e ci veniva da ridere.”
A Como invece succede una cosa buffa. Partita di campionato Primavera contro la Juventus, la gara più sentita. Gianfranco sta giocando benissimo quando alla fine del primo tempo l’allenatore Pezzotti (il futuro secondo e osservatore di Lippi per la nazionale) gli dice: “Tu fuori”. “Lì per lì mi arrabbiai di brutto – racconta Gianfranco – poi dopo mezz’ora si avvicinò Bagnoli, allenatore della prima squadra e mi disse che ero convocato con i grandi”. Il giorno dopo debuttò a 18 anni (compiuti un mese prima) in B contro la Spal (0-0).
Poi i prestiti a Giulianova e Osimana (dove conosce Claudia la futura moglie che gli regalerà tre bellissime figlie) e Reggio Emilia dove finisce nel mirino della serie A insieme all’attaccante Carnevale. Ora il Como è nella massima serie e finalmente decide di dargli fiducia. “Il debutto con la Juve mi fece subito capire che se non volevo affogare dovevo imparare a nuotare alla svelta. Primo minuto, prendo palla e da dietro Tardelli mi fa un’entrata che te la raccomando.
Faccio per alzarmi dolorante e lui serafico: ragazzo, si danno e si prendono. Messaggio ricevuto”.
Gianfranco non è uno che vive di ricordi e per tirargli fuori questi aneddoti ci vuole del buono e del bello. Un altro al posto suo ti racconterebbe l’emozione di un esordio, magari quello in azzurro, lui invece cosa ti tira fuori? “In nazionale a Bergamo giocavamo la gara di ritorno con Malta. A un certo punto un avversario mi si attacca ai pantaloncini e me li strappa lasciandomi in mutande. Non sapevo se ridere o nascondermi”.
Dell’Inter dei record potrebbe dirne tante, ma il segreto dello spogliatoio è sacro. Certo quel record del gol più veloce (9 secondi e 9 decimi) che detenne per quasi cinque anni non può essere messo in un cantuccio. “Lì per lì non pensai certo di aver realizzato un record, io poi di gol ne facevo pochi. Era contro il Cesena, questo lo ricordo, ma non ci feci troppo caso. Poi tutti cominciarono a chiamarmi e a intervistarmi e mi resi conto che era stato un gol particolare”.
L’arrivo a Cagliari doveva regalargli forse la soddisfazione più sentita. Aveva vinto tutto, eppure si era rimesso in gioco per coronare il sogno di un bambino che come tutti gli altri ragazzini di Ovodda giocava con la maglia numero 11 e si faceva tagliare i capelli come Gigi Riva. “Credo che ai quei tempi succedesse un po’ dappertutto in Sardegna, non solo da noi a Ovodda. Vivevamo per il Cagliari e per le vittorie firmate dal Bomber. Ecco perché solo quando indossai la maglia rossoblù mi sentii pienamente realizzato”. E se arrivò in una
neopromossa, nello spazio di due anni la portò sin quasi alle soglie della vittoria Coppa Uefa. “Che gioia quei successi. Mai come a Malines però. Lo stadio era tutto per noi, i nostri compaesani fecero un tifo d’ inferno e la nostra vittoria per 3-1 fu il ringraziamento dovuto per quella gente meravigliosa”. Grazie capitano, grazie Arrodugò.