Era il 1945 e l'Italia decise di spedire migliaia di operai in Belgio in cambio di 24 quintali all'anno di carbone per ogni operaio

di Umberto Cocco

Umberto Cocco
26/09/2016
Attualità
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Il 30 settembre 2016 alle ore 21,00, nel Centro Servizi Culturali di Macomer.a cura dell'associazione Nino Carrus evento in memoria dei 50mila sardi emigrati a lavorare nelle miniere del Belgio: http://www.labarbagia.net/notizie/attualita/10833/macomer-70-anni-fa-centinaia-di-sardi-in-belgio-nelle-miniere-evento-dellassociazione-nino-carrus

Sono trascorsi 70 anni dalla firma dei trattati Italia-Belgio per lo scambio "uomini contro carbone" che portarono nei bacini minerari del Nord Europa 230.000 italiani, molte migliaia di sardi e fra di essi centinaia di disoccupati del Barigadu, del Goceano, del Marghine e della Planargia.

Sono  queste alcune delle aree della Sardegna maggiormente toccate dal fenomeno. I paesi sardi  uscivano dalla guerra con l'agricoltura e la pastorizia ulteriormente impoverite, mentre l'incremento demografico e gli altissimi tassi di analfabetismo facevano dei giovani in età di lavoro manodopera disponibile, in vendita.

Sono ancora vivi alcuni dei protagonisti di quell'esperienza migratoria, nei nostri paesi e in Belgio. Ancor più numerosi i loro familiari, i parenti, figli e nipoti che non hanno dimenticato. Più incerta è invece la memoria che se ne conserva nelle comunità locali e in quella regionale. Sono quasi inesistenti gli studi sull'emigrazione sarda in Belgio, nessuna pubblicazione se si fa eccezione per articoli di stampa e testimonianze sui giornali degli emigrati e una tesi di dottorato.

Mentre molti anziani ex minatori si fanno sintonizzare la Tv sui canali della televisione belga per vedere le manifestazioni che ricordano i 70 anni da quell'accordo, una quindicina di Comuni sardi dell'interno, dal Barigadu al Marghine, hanno organizzato con l'associazione Paesaggio Gramsci e la collaborazione fra gli altri dell'Associazione Nino Carrus, altrettante iniziative durante i mesi di luglio, agosto e settembre, per ricordare.

Sono previsti momenti di riflessione, una ricerca negli archivi comunali, letture, una discussione con Paolo Di Stefano inviato del Corriere della Sera e autore di un importante libro su Marcinelle, di cui ricorre l'8 agosto il 60° (Ula Tirso).

Sempre a Ula Tirso (il 17 agosto) e poi a Macomer il 30 settembre, è in calendario la proiezione di un film celebre anche per le vicende della sua produzione alla fine degli anni '50 in Belgio nel bacino minerario del Borinage. “Già vola il fiore magro” è il titolo,il regista Paul Meyer, e protagonisti e comparse sono sardi, di Ula Tirso, Sindia, Chiaramonti, Ardauli. E' un film capolavoro del cinema belga e centroeuropeo, su di esso stanno ruotando in Belgio le manifestazioni del 70° anniversario degli accordi, e - recentemente restaurato dalla Cinematek di Bruxelles – è in programmazione nelle sale della capitale e della Vallonia.

Il primo trattato  "uomini contro carbone" è del 1945: il governo belga si impegna a dare all'Italia 24 quintali di carbone fossile all'anno per ogni italiano che si reca ad estrarlo dalle sue miniere. Secondo lo stesso accordo gli emigrati dovevano avere «un'età ancora giovane (non più di 35 anni) e un buono stato di salute». Con il protocollo dell'anno successivo, firmato per l'Italia il 23 giugno 1946 dal presidente del consiglio Alcide De Gasperi che è a capo del governo di unità nazionale, la richiesta di emigrati venne portata a 50 mila operai: dovevano partire «a gruppi di 2.000 a settimana in cambio della fornitura annuale all'Italia di un quantitativo di carbone compreso tra i due e i tre milioni di tonnellate, a prezzo preferenziale», così si legge in una famigerata nota a verbale.

L’accordo prevedeva  parità di salario e di trattamento pensionistico e sanitario fra minatori italiani e belgi e il diritto agli assegni familiari per le famiglie rimaste in Italia. Sorvolava sulle reali condizioni di lavoro, per essere di nuovo preciso sui doveri degli italiani emigrati: l’obbligo di rispettare la durata minima contrattuale di un anno, sotto pena addirittura della detenzione prima del rimpatrio, e il mancato rinnovo del passaporto oltre all’impossibilità di cambiare lavoro prima di aver trascorso in miniera almeno cinque anni.

Il primo convoglio con destinazione Belgio partì da Milano la sera del 12 febbraio 1946. Il reclutamento della manodopera nei territori passava per gli uffici di collocamento, ma erano le parrocchie per prime a fare una loro selezione, poi gli emigrati che ce la facevano ad insediarsi in Belgio e che richiamavano parenti e amici in età di lavoro, talvolta la famiglia. 

Venivano sottoposti a visita medica, i sardi, a Cagliari e poi a Milano nei sotterranei della stazione, poi di nuovo fatti salire sul treno quelli 'abili' sino alla bocca della miniera alla quale erano stati destinati, naturalmente senza nessuna possibilità di scelta. Anche gli ingaggi iniziali erano confusi, molti italiani in realtà pensavano di essere assunti come muratori o manovali.

Più o meno inconsapevolmente, andavano a riempire un vuoto. Il governo belga era alle prese con il rilancio dell'estrazione del carbone nei bacini minerari per far fronte alla fortissima domanda internazionale. Secondo il New York Times, nell'estate del 1945 il rifornimento di carbone da utilizzare per la ricostruzione postbellica ed il rilancio della produzione industriale aveva il potere di «tenere svegli di notte» gli statisti europei.

Nel marzo del 1945, pochi mesi dopo la Liberazione e con la Germania ancora belligerante, il primo ministro Achille Van Acker lanciò quella che venne chiamata la "battaglia del carbone". Ma la ricerca di manodopera locale disponibile non ha troppo successo: si aprivano possibilità di occupazione nelle fabbriche di superficie, pochi belgi erano  disposti al duro lavoro nel sottosuolo. Ci provano con i prigionieri di guerra tedeschi, con i soldati ungheresi, russi, con i profughi che vivevano ancora nei campi di sfollamento. Alla fine la soluzione viene  trovata nel ricorso all'approvvigionamento massiccio di manodopera straniera a basso costo, soprattutto italiani. 

L'Italia è a pezzi, sovrappopolata, le città distrutte, un quarto degli impianti idroelettrici messi fuori uso, perdute le miniere dell'Arsa, oggi Croazia, dopo la liberazione dell'Istria da parte dell'esercito jugoslavo, la campagna - da Nord a Sud - satura di braccia. 

«Ma per due convogli che andavano, uno tornava», secondo la testimonianza di Pasquale Zaru, 91 anni, emigrato da Sorradile, ora a Bidonì, raccolta in una videointervista di alcuni mesi fa e contenuta nel documentario “La mina” di Simone Cireddu e Barbara Pinna.

 Tornavano i tanti giovani che non se la sono sentita più di restare alla vista dei pozzi, delle "cantine" (parola belga che significa "mensa") nelle quali sarebbero dovuti andare a vivere, e che in realtà erano gli hangar nazisti utilizzati durante la seconda guerra mondiale per i prigionieri sovietici, grandi stanze dentro capannoni di lamiera di proprietà delle società minerarie, con bagno e cucina in comune, un letto con materasso e coperte, non erano riscaldate d'inverno, d'estate caldissime. Nei pozzi le condizioni di lavoro erano disumane; prima della tragedia di Marcinelle, nel 1956, non erano in dotazione nemmeno le maschere antigas. Si lavorava per otto ore, e poi spesso soprattutto gli italiani si prestavano a fare un secondo turno, in cunicoli stretti, alti a volte solo 40 centimetri, a     temperature anche di 45 gradi, sdraiati su un fianco con il martello pneumatico imbracciato, mentre una candela illuminava la scena. Alla consumazione dei pasti erano dedicati 20 minuti.

La paga veniva data due volte al mese, in genere il 10 e il 25 del mese. Il salario medio si aggirava, all’inizio degli anni ’50, tra i 220 e i 350 franchi al giorno. Con il lavoro a cottimo si riusciva a raggiungere anche oltre 400 franchi. Le ferie venivano calcolate sulla base dei giorni lavorati nell’anno precedente. Dai 6 giorni all’anno del 1948 si passò ai 12 e poi ai 30, grazie all’intervento dei sindacati. Pochi fortunati venivano addetti alle fasi di lavorazione  in superficie, riservate prevalentemente ai belgi.

È una delle epopee più terribili dei sardi, una delle più forti esperienze migratorie. È anche una storia  di riscatto giocata da alcune generazioni di uomini e donne, dalle loro famiglie. Una storia di sfruttamento ma anche di dignità, conclusa a volte con successo, o con il ritorno ai paesi d'origine o, per chi è rimasto in Belgio, assorbito infine in una integrazione riuscita, con molti  sardi di seconda e terza  generazione impiegati nella riqualificazione delle aree minerarie del Borinage, nella loro trasformazione in parchi scientifici e tecnologici che sono un esempio di attenzione alla memoria dei luoghi, dei paesaggi.

L'Italia ricorda l'emigrazione nelle miniere del Belgio per la tragedia di Marcinelle, nella quale l'8 agosto 1956 perirono 262 operai, dei quali 136 italiani (nessun sardo fra loro), arsi dalle fiamme causate da un corto circuito e divampate al piano 765 del pozzo di Bois du Cazier. Fu un punto di svolta. Ufficialmente quella tragedia mise fine all'emigrazione italiana verso quel Paese, cambiò molte cose, segnò il destino delle miniere di carbone.

Ma dal 1957, anche grazie al Trattato di Roma che permise la libera circolazione di manodopera italiana all'interno dei Paesi aderenti all'accordo, il flusso dall'Italia riprese vigore. Lasciarono il Mezzogiorno e le Isole secondo Federico Romero (3) oltre un milione e mezzo di persone fra il 1958 e il 1963, destinazione i paesi dell'Europa centrale. 

Oggi si fa comune affidamento su queste cifre:  nel 1955 gli italiani impiegati nel fondo sarebbero stati quasi 47.000 su un totale di 65.000 stranieri e di 114.000 minatori, dunque poco meno della metà della manodopera dei bacini carboniferi.

Ma l'impressionante flusso di regolari e di emigrati clandestini, la permanenza in miniera anche per brevi periodi di chi non ce l'ha fatta a restare ed è tornato a casa o ha scelto altri lidi, porta a 230.000 il numero degli italiani che tra il 1946 e il 1960 lavorarono nelle miniere belghe. Nel 1972  i sardi che sono ufficialmente in Belgio sono 18.903, rappresentano il 7% del totale degli italiani che vi si sono stabiliti. Si tratta di dati ufficiali. Sfuggono sicuramente coloro che non registrano all'anagrafe  del comune di provenienza il loro trasferimento. Anche l'emigrazione successiva agli accordi del 1946 non è registrata da dati certi, nonostante la gran parte degli  emigrati venissero regolarmente assunti, con contratti che passavano dall'ufficio di collocamento. 

Il progetto “Uomini contro carbone”  si propone di raccogliere dati su un'area delimitata della Sardegna in relazione a quella migrazione che interessò tutta l'isola, di riempire anche altri vuoti, ricostruire memoria, in fondo anche identità. 

  «D'altronde cos'è la storia delle migrazioni?» si chiede  in un numero recente la rivista Studi Emigrazione. «È la storia di quanti hanno vissuto tale fenomeno, ma allo stesso tempo di coloro che l'hanno subito passivamente restando nei propri luoghi; è la storia dei luoghi della partenza e dell'arrivo e di come entrambe le società/comunità abbiano conseguentemente subito e vissuto profondi cambiamenti. Inoltre, cos'è la storia dei fenomeni migratori, se non la chiave interpretativa delle storie delle classi dirigenti, in senso onnicomprensivo, di come la diplomazia degli Stati, le attività dei partiti, dei sindacati, delle associazioni, degli intellettuali, siano state in grado di incidere sul fenomeno migratorio».

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