La solidarietà senza burocrazia

di Tonino Bussu

19/08/2013
Attualità
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Qualche anno fa, in occasione del terremoto in Abruzzo, ha creato simpatie e consensi l’iniziativa de sa paradura  di Gigi Sanna, cantante del  gruppo de sos Istentales, ma anche attivo imprenditore agricolo di una fattoria didattica in quel di Baddemanna a Nuoro.

Già il nome Istentales, la grande e meravigliosa costellazione autunnale di Orione, rievoca antichi miti greci, ma anche  tradizioni pastorali sarde in quanto questa costellazione, chiamata Sos Bacheddos in Barbagia, era l’orologio notturno estivo per i pastori barbaricini e, quando si presentava sulla volta celeste, preceduta  da su Gurdone, le Pleiadi, avvertiva che era il momento di riportare il gregge all’ovile dopo il pascolo notturno de su chenadorzu o murigargiu o su tzucare, come dicono nell'oristanese.

Quindi Orione, sos Baccheddos, sos Istentales, diventano oggi con Gigi Sanna il simbolo dell’antica solidarietà pastorale senza burocrazia che in poco tempo riescono a creare, a parare un gregge per donarlo ai fratelli pastori abruzzesi colpiti dal terremoto.

Di altrettanta simpatia e stima si è circondato questi giorni Fortunato Ladu, pastore impegnato con grande energia e passione nelle lotte per il riscatto di questa categoria che rimane, oggi più di ieri, alla base della nostra economia e cultura millenarie. E la stima e simpatia per Fortunato Ladu deriva dalla sua iniziativa di esprimere e incoraggiare una solidarietà concreta, efficace e veloce, con l'invio di varie balle di fieno per i pastori del Sarcidano funestati dal fuoco assassino e  crudele dei giorni scorsi che ha distrutto pascoli, greggi e messo a repentaglio la vita stessa delle persone.

Ebbene, la lodevole iniziativa di Fortunato Ladu, seguita dalla generosità di altri suoi colleghi  di varie zone della Sardegna, si inserisce nel solco di quelle forme di solidarietà comunitaria in vigore nella società pastorale fino agli anni sessanta, che affonda le sue radici nei secoli passati quando in casi di estrema necessità personale non vi erano aiuti pubblici e si rischiava la fame e la miseria.

Numerosi sono i racconti di tropas de pastores, gruppi di pastori, che si prendono l’impegno di andare da un ovile ad un altro e chiedere una , due o più pecore, a seconda dei casi, per ricostruire il gregge del Tal dei Tali perché o gli era stato distrutto da una calamità naturale, o gli era stato rubato o perchè, dopo vari anni di prigione, non aveva più nulla e quindi era opportuno metterlo nelle condizioni di riprendere a lavorare.

Ecco quindi i termini in lingua sarda per indicare questa antica pratica di sa ponidura, come dice spesso Gonario Pinna, noto penalista nuorese, nella sua opera ‘Il pastore sardo e la Giustizia’, da pònnere, mettere a disposizione una pecora o altro capo di bestiame.

L’altro termine è sa paradura, da parare cioè formare, creare, parare pacos pecos de bestiàmene, formare un piccolo gregge di pecore o di armenti o maiali ecc.

Si dice anche su paru, per indicare un genere, una specie di bestie, su paru de sa berbeghe, ma in certi casi, soprattutto quando si intende condannare l’azione riprovevole  di una persona, si dice anche su paru ‘e su tontu o de s’isterzare! Comuni sono espressioni come: e ite li cheries fàchere a su par’e su maccu! E per indicare il massimo del disprezzo nei confronti di una persona o di una bestia invece che paru su dice parìle, o parìle malu!

Quindi sa paradura da parare.  

Mi raccontava un pastore barbaricino in quel di Bosa che negli Anni Sessanta aveva donato almeno dieci pecore per aiutare un amico a ricrearsi il gregge, mentre per un altro pastore del Montiferru avevano lo stesso fatto sas berbeghes de dimanda.

Nei primi Anni Venti del secolo scorso una delle tante violenti calamità naturali aveva tra l’altro incenerito il gregge di un pastore di Ollolai, certo Giovanni Lostia mi sembra, e allora, anche su indicazione del Consiglio Comunale, come risulta da una delibera del tempo, i pastori ollolaesi hanno portato  nel suo ovile ognuno una pecora viva e in cambio si sono presi una pecora morta e nel giro di qualche giorno gli hanno ricostruito il gregge, l’ant torrau a parare sa gama, sa roba, salvandolo dalla disperazione più nera.

Istituti come sa ponidura o paradura o berbeghes de dimanda dovrebbero essere contemplati negli statuti comunali perché sono una pratica che permette di esprimere la solidarietà viva, diretta e soprattutto veloce, senza perdersi in lungaggini burocratiche.

Abbiamo tentato negli anni scorsi di mettere in qualche statuto comunale tracce, arrastos delle nostre migliori tradizioni comunitarie come la figura de s’omin’e mesu o appunto de sa paradura, ma la modernità e la legislazione statale non lascia spazio a scelte coraggiose e identitarie di questo tipo che, per alcuni che predicano la superficiale sardità da cartolina, è solo vecchiume.

Per fortuna  invece tali istituti sopravvivono nelle iniziative di persone e gruppi che infischiandosene delle leggi e considerate le lungaggini previste da queste ultime, danno risposte, come in questo caso, che sostituiscono gli interventi  statali o regionali che spesso o non arrivano o arrivano in ritardo, perché sono tanto precise nella loro stesura quanto farraginose nella loro applicazione.

Sarebbe opportuno che la Regione si muovesse nella direzione di recuperare questi istituti comunitari che hanno una grande e immediata efficacia, purché liberati dalle pastoie della burocrazia.

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