ESCLUSIVA: “Giornalisti per mestiere? No, per passione!” Nanni Boi racconta la sua vita da giornalista

Intervista a Nanni Boi, nota firma del giornalismo sardo. Le tappe della sua carriera dagli esordi fino alle partite dei Mondiali ’90, dallo scudetto del Cagliari fino alla pubblicazione di “Un tiro mancino”

Federico Ventagliò
10/01/2014
Sport
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Nanni Boi, nota firma del giornalismo sportivo sardo, ha rilasciato alla nostra redazione un'intervista ad ampio raggio in merito al mondo della comunicazione sportiva in Sardegna. Parole ricche di "perle" e curiosità, da custodire come prezioso patrimonio per chi scrive di sport nella nostra isola.

Nanni, come nasce la tua passione?

“Non nasco giornalista vero e proprio. C'è molto di casuale. La passione ha giocato un ruolo chiave. Innanzitutto prima giocavo. Dello sport ho conosciuto prima il lato agonistico di quello mediatico. L'approccio ai mezzi di comunicazione è stato un pò strano: a quattordici anni ho fatto un provino col Cagliari perché mi aveva notato un osservatore. Ho fatto parte degli "Allievi" nei quali c'era chi poi ha conosciuto la Serie A: il portiere Dore, recentemente scomparso, Sandro Loi, e Dasara, che per me era uno “Xavi” predestinato. Poi ebbi qualche acciacco, i genitori erano già avanti con gli anni e non potevano starmi dietro fra campi e allenamenti, e la cosa non maturò. In seguito frequentai un corso di pubblicità, e un'insegnate chiese cosa volevamo fare da grandi. I compagni risposero per me. Sapevano che ero un almanacco ambulante. Mi avevano accettato anche la partecipazione alla trasmissione "Rischiatutto", ma ero minorenne e non potei poi andare. L'insegnate fu gentile, si era detta disposta a segnalare il mio nome all'Unione Sarda, dove conosceva molte persone. Lì io ebbi una felice intuizione: sapevo che l'"Unione" era abbastanza coperto, e suggerii la "Nuova Sardegna", dove allo Sport c'era il solo Costanzo Spineo. Con lui fissammo un appuntamento e mi mise subito alla prova. Ho avuto la fortuna di partire subito col Cagliari, nella stagione 1983-84. Delle serie inferiori per lavoro ho seguito solo un Sinnai-Ilvamaddalena. Ma la mia ambizione era un'altra: fare il direttore sportivo”.

Quale fu l’inizio vero e proprio della carriera?

“Nel 2004 Grauso mi fece una proposta che ritenevo soddisfacente. Da entrambi i lati: professionale ed economico. Alla "Nuova" dovevo "insegnare" il lavoro ai più giovani, esperienza che durò sei anni. Poi finì per vari motivi. A sorpresa, arrivò nel frattempo il premio CONI alla saggistica per il mio libro su Riva, intitolato "Un Tiro Mancino"”.
Com’era il rapporto con calciatori e colleghi?
“Devo tanto a Spineo. Poi ho un ricordo breve ma intenso di Franco Brozzu (40 anni inviato sportivo dell'"Unione Sarda", ndr): mi diede un'autentica lezione di signorilità. Una domenica dovevo fare l'inviato per due eventi: il Cagliari a San Benedetto del Tronto e l'Esperia a Pescara. Finimmo col Cagliari e al fischio finale mi misi in viaggio per il capoluogo abruzzese. Brozzu mi passò le dichiarazioni raccolte dai giocatori, come se fosse lui l'ultimo dei ragazzini debuttanti, e rimase al telefono tre quarti d'ora a dettarmi tutto, senza nascondere nulla di "piccante" come oggi qualcuno potrebbe fare. Una vera lezione. Tra i giocatori invece, O'Neill, Allegri e Oliveira, che parlavano a ruota libera e ti regalavano sempre "il titolo". Infatti oggi mi dispiace dover vedere Allegri impostato. Ma il nuovo ruolo lo impone”.

Come nasce l'idea di scrivere "Un Tiro Mancino"?

“Volevo celebrare come meritavano gli eroi dello Scudetto. Volevo dimostrare concretamente il fatto che, a distanza di oltre trent'anni, molte persone estranee allo sport ricordassero nitidamente Riva e il suo Cagliari. Gigi, per premiarmi, mi regalò la sua prima maglia azzurra col numero 11, indossata alla sua seconda presenza. Al debutto giocò con la "sedici", perché subentrò dalla panchina. Faccio parte della "generazione d'oro" del giornalismo sardo, dei nati a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta: Porrà, Frailis, Vittorio Sanna, Sandro Angioni. Giorgio Porrà era mio compagno di classe alle scuole medie, all'Istituto "Spano". Classe nella quale c'era anche dottor Scorcu. Più grande di me c'è Pupo Gorini, anch'egli ex calciatore del Cagliari. Lo sto implorando di raccogliere in un libro le sue memorie, perché è un delitto disperderle. E poi un periodo era ospite fisso a Sardegna 1 Tomasini. A lui è legato un simpatico aneddoto: nel '69 (9 marzo, ndr) giocammo senza Riva contro la Juventus all'Amsicora. Scopigno appese la maglia al pennone dello spogliatoio dicendo: chi la prende per primo la indossa. Si precipitò Beppe e fu sua. Fini 0-1 per i bianconeri (52'Anastasi, ndr), e ancora oggi ripeto a battuta a Beppe: non eri tagliato per indossare la 11!”.

Chi ti piace tra gli emergenti giornalisti?

“Ci sono diversi giovani di talento. Cito Roberto Rubiu. Di lui apprezzo la capacità di collegamenti fra passato e presente. Fondamentale nel nostro lavoro. Il presente lo puoi capire solo attraverso la Storia. Dei colleghi oltre Tirreno ammiro l'ironia di Paolo Condò, inviato di punta della "Gazzetta", la saggezza di Gianni Mura, e la leggerezza di Porrà, pur sardo, ma oggi affermato nella Penisola. Del passato, dico Beppe Viola e il primo Tosatti”.

C'è una partita o competizione che custodisci come il ricordo più bello?

“Ce ne sono diverse, ma mi piace distinguere fra quelle da tifoso e quelle da giornalista. Nel primo caso dico Cagliari-Bologna 4-0 nell'ottobre '66. Tre gol di Riva e uno Boninsegna. Per Gigi, prima tripletta e primo rigore in A. Per lavoro, dico Malines-Cagliari 1-3, ottavi Uefa '93-94. E poi due del Mondiale ‘90: Inghilterra-Camerun 3-2, e la finale Germania-Argentina 1-0”.

In finale hai incrociato Bizzotto in tribuna stampa?

“Si, lo ricordo benissimo perché mi fu di grande aiuto. Ero a rischio di "bucare" il pezzo sulle interviste. Avrei finito alle tre di notte coi traduttori ufficiali. Lui, oltre che bolzanino, ha la madre tedesca, ciò gli permette una padronanza della lingua alla perfezione. Fu gentilissimo a tradurmi tutte le dichiarazioni dei tedeschi che non giocavano in Italia”.

Cosa suggerisci ai giovani che si affacciano al giornalismo?

“La passione in primis. Per mestiere non si può fare. Poi due caratteristiche imprescindibili: testardaggine e franchezza”.

Sullo scudetto del 1970, cosa si può aggiungere ancora di inedito?

“C'è un particolare a me caro: riguarda Greatti. "Riccio" era a un passo dalla cessione, tanto che all'esordio a Genova non giocò. Poi Scopigno si decise a porre un categorico veto, capendo la sua importanza. Scelta che fece la fortuna del Cagliari”.

Per approfondimenti sul Cagliari calcio visita il quotidiano blogcagliaricalcio1920.net

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