Quando si ballava per s’alza

Domenica Chighine
01/02/2014
Tradizioni
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C’è stato un tempo, in cui in Sardegna esisteva una società legata ai cicli produttivi delle stagioni, alle transumanze delle greggi e soprattutto dipendente dalle vicende atmosferiche. Una società, quella agro-pastorale in cui erano anche diffusi riti agresti a carattere magico, come il culto delle acque, e pratiche legate alla medicina popolare, diffuse in tutta l’isola e tramandatesi oralmente fino alle generazioni dei nostri nonni. Una di queste pratiche era su ballu ‘e s’alza.

S’alza è un temutissimo ragno conosciuto in italiana come malmignatta o vedova nera del mediterraneo; cugina di quella vedova nera, pericolosa ma non letale come quest’ultima. In Sardegna a seconda delle località è chiamata alza, arza, argia e aglia; si è estinta quasi completamente intorno alla fine degli anni Cinquanta in seguito alle bonifiche effettuate nell’isola per debellare la malaria, e per effetto dell’utilizzo di diserbanti nell’agricoltura. Con il suo morso, s’alza, iniettava un veleno che intossicava l’organismo, provocando febbre molto alta, dolori strazianti, nausea, vomiti, perdita di coscienza e in casi rari anche la morte, probabilmente derivata da altre complicazioni.

Secondo la medicina popolare il rimedio conosciuto per guarire da sa punta ‘e s’alza era effettuare un ballo, un rito di rigenerazione che seguendo determinati schemi aiutava il malcapitato a trovare un iniziale sollievo ed infine il risanamento definitivo. Sin dai tempi antichissimi si conoscevano le proprietà terapeutiche del canto e della musica in generale, e probabilmente si faceva affidamento proprio su queste doti quando si metteva in pratica il ballo de s’alza.

A seconda delle località si eseguivano differenti rituali. Lo scopo era comunque lo stesso. Quello più conosciuto prevedeva la disposizione del malato dentro una fossa appositamente scavata, riempita di letame fino al collo della persona. Venivano chiamate a partecipare al rito sette donne bajanas (nubili), sette donne cojuadas (sposate) e sette donne fiudas (vedove), le quali danzavano e cantavano attorno all’infermo a gruppi di sette alla volta, pronunciando battute spiritose spesso sconce con lo scopo di risollevare almeno il morale del paziente. Il malato riconosceva nella danza di uno dei tre gruppi quella che gli dava più sollievo, e continuava il rito solo il gruppo prescelto impostando il ballo in un determinato modo; ciò era molto importante perché in tale maniera si identificava la tipologia di ragno, ovvero se era vedova, nubile o sposata. Se il giovane trovava sollievo dal rito delle donne sposate, secondo gli antichi significava che s’alza era sposata. Il rito poteva durare anche tre giorni, l’efficacia della terapia non era certo messa in discussione.

In un altro rito erano chiamate a partecipare tre donne sempre di stato civile diverso, ma dovevano chiamarsi Maria.

Un terzo rito prevedeva invece che le donne ballassero in silenzio portando al collo dei campanacci, il cui suono si credeva allontanasse gli spiriti maligni. Iin un altro rito lo sventurato veniva riposto dentro un forno per almeno dieci minuti precedentemente riscaldato e una volta estratto veniva avvolto nelle coperte e aspettava la guarigione.

Segnaliamo il film “Su ballu ‘e s’arza”, realizzato dall’Associazione Gruppo Folk Tradizioni popolari e dall’Associazione Culturale Coro Melchiorre Murenu di Macomer, regia di Serafino Deriu. Tratto dal racconto omonimo di Giovanni Firinu.

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