La Lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, si tenta di ridurla al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano con i Savoia prima e l’Italia unita poi. Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna, la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo. Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi e i Savoia occorre rendere ufficiale la lingua italiana: loro che parlavano francese! Tanto che quando nel 1861, il 17 marzo, Vittorio Emanuele II diventa re d’Italia, nella proclamazione che ne farà Cavour in Parlamento, diventerà, in francese, roi d’Italie! Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo. Questo il vero motivo: non quello “ideologico” della civilizzazione, accampato da Carlo Baudi di Vesme che nell’ opera Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, scritta, su incarico del re Carlo Alberto tra l’ottobre e il novembre 1847 ma completata nel febbraio 1848, scrive che “Una innovazione in materia di incivilimento della Sardegna e d’istruzione pubblica, che sotto vari aspetti sarebbe importantissima, si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche, l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana…E’ necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo ed introdurre quello della lingua italiana anche per altri non men forti motivi; ossia per incivilire alquanto quella nazione, sì affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni e gli ordini del Governo…"Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la Lingua italiana nella scuola" affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini poverelli ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del cardinal Roberto Bellarmino e il Catechismo agrario, giacchè l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna. Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale, – che per l’Isola significherà dessardizzazione – la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877). I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional- statale e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale. Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “italianizzazione” dell’intera storia italiana. Finito il Fascismo e affermatasi la Repubblica democratica, l’idiosincrasia nei confronti di tutto ciò che è Sardo, e in modo particolare della lingua, continuerà comunque anche nel dopoguerra. Nel 1955,nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in “dialetto”. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero della Pubblica Istruzione – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a controllare eventuali attività didattiche - culturali riguardanti l’introduzione della lingua sarda nelle scuole. Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a schedare gli insegnanti. E non si tratta di “pregiudizi“ presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale di un Partito “gramsciano” ma dimentico della lezione di Gramsci (È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini…) invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo perché separatista e attentatrice all’Unità della Nazione! Oggi fortunatamente la situazione sta cambiando: le lingue locali e minoritarie hanno avuto un formale riconoscimento giuridico e normativo prima a livello europeo con la “Carta Europea per le lingue regionali e minoritarie” poi a livello regionale con la Legge n.26 del 15 Ottobre 1997 sulla “Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna” e infine a livello statale con la Legge n.482 del 15 Dicembre 1999 riguardante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” in cui è presente la Lingua sarda. Andremo verso la resurrezione del Sardo?