Storie nostre. Francesco Dore, un medico olzaese prestato al giornalismo e alla politica (1 puntata)

di Salvatore Murgia

Salvatore Murgia
10/02/2015
Arte
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Lo scorso anno ricorreva il settantesimo anniversario della morte del dottor Francesco Dore, nativo di Olzai, medico condotto di Orune per un trentennio, giornalista e deputato al Parlamento. Nell’imminenza del centenario della partecipazione dell’Italia alla Prima guerra mondiale, durante la quale l’on. Dore difese gli interessi dei suoi conterranei dai banchi di Montecitorio e militò come capitano medico, si vuole riproporre la sua figura esemplare di medico, giornalista e politico, oltre che di cattolico impegnato nella vita civile.

1° Puntata - La casa di Drovennoro, tra pastori, notai e medici

Giovanni Maria Francesco Emanuele Dore, chiamato sempre Francesco anche nei documenti ufficiali, nasce a Olzai il 29 dicembre 1860 da una famiglia di proprietari terrieri, che abitualmente avviavano agli studi i figli maschi più promettenti perché diventassero medici, notai e avvocati. Era una forma di emancipazione, finalizzata principalmente ad accrescere il lustro della famiglia, ma non a sovvertire l’essenza dell’economia domestica, da generazioni dipendente esclusivamente dalla pastorizia. Per i piccoli possidenti della Barbagia infatti, il commercio del formaggio e della lana, gli affitti dei terreni da pascolo costituivano la parte preponderante del bilancio familiare, non certo i proventi derivanti dall’attività professionale o dallo stipendio dei figli medici, insegnanti o sacerdoti perché - secondo l’opinione della figlia Grazia Dore - questi rimanevano fondamentalmente pastori-medici, pastori-insegnanti, pastori-sacerdoti.

Il padre è Giovanni Pietro Dore (1822-1884), già medico condotto a Orune, decorato per la sua attività di vaccinatore contro il vaiolo. Dotato di “occhio clinico”, è molto stimato dai suoi compaesani perché d’animo buono e sempre disponibile: oltre che curare sa anche confortare i suoi assistiti. La madre è Raffaela Satta, figlia del notaio Sebastiano e nipote di un altro notaio Giuseppe Gavino Satta. In una foto di famiglia dei primi del ‘900 mamma Raffaela, piccola e magra, ricorda la Madre dell’ucciso di Francesco Ciusa: volto minuto inciso dalle rughe e incorniciato dal fazzolettone barbaricino, fa intuire un forte temperamento ma nulla svela del suo animo generoso. Largheggiava infatti così tanto nella sua generosità, sempre di nascosto, che non c’era mai un soldo in casa. Anche lei, a modo suo, aveva un “gran colpo d’occhio” ma per il bestiame: se arrivava qualche nuovo capo giudicava e sentenziava, senza mai sbagliare. Nelle belle giornate si affacciava alla porta della cucina, guardava a quale altezza si trovava il sole e diceva «è mezzogiorno», non sbagliava mai.

Francesco ha due fratelli, Pietro e Giovanni, e quattro sorelle Maria, Grazietta, Maddalena e Antonia. Pietro, nato nel 1862, è il più brillante e studia con profitto. Laureato in medicina a Cagliari nel 1888, diventa medico condotto a Olzai. Ma siccome ha il vizio di bere, il fratello Francesco interviene presso la sottoprefettura di Nuoro per farlo sospendere per sei mesi dall’esercizio professionale. Pietro entra in un grave stato depressivo e muore prematuramente nel 1899. Giovanni nasce nel 1871, si laurea in giurisprudenza ed entra in magistratura. È eletto consigliere comunale di Olzai dal 1920 al 1926. Nell’aprile di quell’anno infatti, soppressi gli organi democratici dei comuni, tutte le funzioni in precedenza svolte dal sindaco, dalla giunta e dal consiglio comunale sono attribuite al podestà, nominato con regio decreto per cinque anni e revocabile in qualsiasi momento. Giovanni Dore è un irriducibile avversario del fascismo. Per questo fu vietata la diffusione del suo opuscolo Per la strada Sedilo-Olzai-Ollolai (1938), un lavoro molto documentato, ma troppo critico verso le autorità e perciò non gradito al regime (su Giovanni Dore si rimanda al breve profilo biografico presentato da Giangavino Murgia, in questo sito: Olzai. Appunti per una storia, VIII puntata).

Alle sorelle Dore furono impartiti solo i primi rudimenti dell’istruzione elementare, in pratica saper leggere e scrivere, perché a quei tempi la prosecuzione degli studi era ammessa solo per i figli maschi. Maria, Grazietta e Maddalena non si allontaneranno mai dal paese e camperanno dalle risorse della campagna e dall’allevamento del bestiame. Della sorella Antonia, la più giovane, non rimane alcun ricordo: si sa solo che lasciò presto la famiglia per diventare suora francescana a Tunisi, suor Dorotea.

Grazietta, stravagante e vanitosa, collezionava corsetti di seta e mostrava con orgoglio le foto dei figliocci inviatele dal fronte. Nessuno in paese aveva tanti figliocci e figliocce come lei. In una casetta attigua alla sua abitazione accoglieva le ragazze nubili che restavano incinte. Dopo il parto, nel congedarle raccomandava loro di raffreddare i bollori nelle acque del fiume, nel caso fossero incappate in qualche altra tentazione peccaminosa. Nella vicina chiesa di Santa Barbara fece erigere a sue spese una cappella laterale che, ovviamente, volle dedicare alla Madonna delle Grazie.

Maddalena, invece, non dava confidenza a nessuno e aveva la mania della segretezza, al punto che quando riceveva le amiche, si chiudevano in una stanza e nessuno sapeva cosa mai avessero da raccontarsi. Come la mamma, le sue passioni erano il bestiame e l’accumulo di abbondanti provviste da donare in gran segreto ai bisognosi. Alla morte della madre, visse con il fratello Pietro, di cui non gradiva si sapesse che beveva. Maria era molto dolce e quando tentava di parlare in italiano, le sorelle la deridevano per gli strafalcioni. Era l’unica sorella maritata, aveva sposato il segretario comunale Antonio Satta, che vestiva sempre di velluto con tanto di cappello e cravatta, ma era attento e parsimonioso nell’amministrazione della cosa pubblica. Si dice che una volta, per evitare l'acquisto dell’inchiostro, l’abbia estratto da piccole bacche nere raccolte nell’orto da chissà quale pianta. Ma non lesinò nel costruire la nuova casa a due piani, con criteri architettonici moderni, che ancora oggi si erge possente nella parte alta dell'abitato, in faccia alla chiesa di Santa Barbara.

Poco più avanti, lungo la ripida salita della via Regina Margherita che porta al vecchio Monastero, sul lato sinistro si trova ancora intatta anche l’abitazione dei Dore, una di quelle case di possidenti che in Barbagia somigliano l’una all’altra. Grandi o piccole che siano, concepite per abitazione e deposito, non di rado ti accolgono con un inconfondibile sentore di grano e di formaggio. Il grande portone si apre nel cortile con la legna ben accatastata. Varcato il portoncino d’ingresso, sulla destra si accede alla stanza per il ricevimento degli ospiti: in un angolo semibuio si intravede il cassettone sormontato da una vetrina che funge da nicchia per la Madonna del Rimedio, vestita di pizzo e di un corto mantello azzurro di raso ricamato. Un saliscendi di scalette porta alla grande cucina con il camino, dove si trova anche la vecchia cassapanca sarda di colore nero oleoso, in cui si conserva la tovaglia di lino ben piegata con la provvista del pane per i servi pastori. Il primo piano è un labirinto di stanze da letto con il tavolato di legno e il sottotetto di canne. Dalla cucina si passa nel cortile con li pollaio, poi c’è la stalla per i cavalli e i buoi, e infine l’orto con frutta e verdura in abbondanza.

Nel 1872, l’undicenne Francesco Dore lascia la casa paterna perché inviato a Nuoro per frequentare il ginnasio. Sulle scale del Seminario incontra il chierico Pasquale Lutzu, il vicepreside destinato ad assumere in seguito incarichi di primaria importanza nella chiesa nuorese, per volere di ben quattro vescovi. «Io mi presentavo, piccoletto di età e di corpo – racconta Dore – tutto impacciato nell’ampia e nera zimarra di seminarista. Egli giovanotto slanciato e aitante, sotto uno splendido costume paesano – a quei tempi non si lasciava il costume se non quando si andava fuori di Nuoro, agli studi liceali –, che in quello stesso giorno doveva cedere il posto all’austera veste talare. Sin dal primo momento nacque fra noi una mutua simpatia che ci accompagnò per tutta la vita, ad onta di alcuni contrasti, di quei dissensi che intessono il destino delle nature operose e appassionate… dimostrò subito spiccate attitudini di uomo di governo. Nominato vicario generale dal compianto vescovo Demartis, seppe ammorbidire la mano di ferro con cui l’inflessibile presule avrebbe voluto imporre al clero della diocesi la stessa disciplina che aveva imposto ai frati Carmelitani del suo convento. Incline per natura all’indulgenza, ne fece larga applicazione anche dove altri avrebbero desiderato atteggiamenti di rigore». Qualche anno dopo, nelle aule «fredde e austere» dell’ex Convento francescano, con Mauro Mannironi inizia una duratura amicizia, rinsaldata dalle comuni battaglie politiche. Nella stessa scuola incontrerà anche Giuseppe Pinna, «il maggiore e migliore» degli studenti ginnasiali di Nuoro, e Salvatore Daddi proveniente da Gavoi, futuro fondatore e direttore del quotidiano cattolico sassarese L’Armonia Sarda. Infatti «bisognava diventare nuoresi per essere qualcuno, e quest’idea li spingeva a studiare, ad andare al ginnasio, al liceo e a correre anche la grande avventura dell’università» (Salvatore Satta, Il giorno del giudizio). Conseguita la licenza liceale, nel 1879 Francesco Dore si iscrive alla facoltà di medicina di Cagliari.

[Continua]

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