Conoscevo poco Nino Carrus, non abbastanza forse da parlarne come altri dei presenti. Lui del 1937, io del '49, ci dividevano una decina d'anni decisivi, una piccola barriera generazionale. Lui una biografia tutta politica, per quanto vi fossero e contassero gli studi in giurisprudenza e soprattutto nelle discipline agrarie e l'esperienza di economista applicato ai problemi dello sviluppo nel Centro regionale di programmazione; io al contrario animale universitario, per quanto con un precoce impegno giornalistico sui problemi della Sardegna.
Fu quel terreno, anzi, che ci fece incontrare. Leggeva quel che scrivevo e gli piaceva interrogarmi, con quel garbo e quella gentilezza che costituiva la sua caratteristica. Gli piaceva discutere, e ascoltare. In questo – debbo dire – era molto diverso da altri esponenti della politica sarda che mi è capitato di conoscere. Erano, gli anni Settanta, quando ci conoscemmo, tempi di forti contrapposizioni politiche e culturali. E poteva capitare anche scrivendo sui giornali di finire in polemiche personali. Una, la ricordo qui per dire la differenza dell'approccio, fu quella durissima che mi rivolse Severino Delogu perché mi ero permesso in una recensione di dire che sul sistema dei partiti dentro la sanità aveva ragione Nino Andreatta, secondo il quale talvolta erano da rimpiangere le piccole mutue di una volta.
Con Carrus era un piacere discutere. Aveva già alle spalle un notevole bagaglio di esperienze. Segretario provinciale della Dc di Nuoro nel 1963 e Vice-Segretario regionale della DC sarda. Nel '69 era stato eletto consigliere regionale per la VI Legislatura, venendo riconfermato nel 1974 e nel 1979. Presidente della commissione consiliare per la revisione dello Statuto (1973) e della commissione programmazione (1974), nel gennaio 1977, press'a poco quando ci conoscemmo credo, era assessore delle finanze, urbanistica e enti locali nella giunta Soddu II, carica che poi mantenne ininterrottamente fino al dicembre 1980 (giunte Soddu III, Ghinami I e Ghinami II). Dal 1983 al 1992 sarebbe stato eletto alla Camera (IX e X legislature), autorevole membro della Commissione Finanze e Bilancio e più volte relatore di maggioranza della legge finanziaria dello Stato.
Gli anni Ottanta, quelli nei quali gli capitò di fare il parlamentare, furono un periodo di netto ripiegamento. Anni fa scrissi una specie di storia della legislazione nell'età della Repubblica, molto utilizzando un bellissimo scritto di Massimo Severo Giannini intitolato "La lentissima fondazione dello Stato repubblicano". Quando arrivai al paragrafo relativo agli anni di Carrus, intitolai quel paragrafo "La crisi degli anni Ottanta".
Giannini osservava che con quel decennio appunto lo scenario cambiava profondamente: diverse per preparazione e per più o meno felice traduzione in norme positive, le riforme degli anni Settanta avevano tutte subito nella fase attuativa sensibili mediazioni e travisamenti, anche radicali, producendo alla fine – riteneva Giannini – "risultati spesso difformi e comunque non sempre coerenti con quella che ne costituiva l'ispirazione originaria". In ogni caso, al di là del giudizio politico sulle singole riforme, la stagione dell'innovazione normativa, chiuso l'ultimo scorcio degli anni Settanta, poteva dirsi finita. Il decennio successivo, gli anni Ottanta, avrebbe prodotto una legislazione assai meno ambiziosa, fortemente condizionata dalla necessità di fronteggiare l'emergenza della crisi economico-occupativa e poi l'incipiente crisi fiscale dello Stato; una legislazione priva comunque di un coerente indirizzo unitario, ancor più dominata che nel passato dal particolarismo e dalla frammentarietà . Il ricorso sempre più frequente, nel lessico del legislatore, alla espressione "provvedimenti urgenti" o "misure urgenti" testimoniava appunto quali pesanti condizionamenti gravassero adesso sull'attività normativa.
Sin qui Giannini, che come è noto non usava edulcorare le proprie, spesso radicali (ma spesso veritiere) opinioni. Chissà cosa avrebbe detto di queste opinioni Nino Carrus, che quel decennio lo aveva vissuto nell'officina parlamentare, misurandosi come forse pochi altri con la fattura concreta di quella legislazione.
Ancora Giannini aggiungeva parole di fuoco sulla legge del 1985 per il sostegno all'occupazione attraverso assunzioni nella pubblica amministrazione, in netto contrasto con gli intenti "virtuosi" sanciti dalla finanziaria 1983 e rinnovate nella finanziaria del 1984, entrambe preoccupate di contrastare la tendenza a fare dell'amministrazione il calmiere delle crescenti tensioni del mercato del lavoro. Ma di fronte alla prina seria crisi occupativa, i buoni propositi erano stati dimenticati e le amministrazioni pubbliche erano ritornare al vecchio ruolo di calmiere per le tensioni del sistema sociale e produttivo.
E criticava a fondo – Giannini – le contorsioni normative sul Mezzogiorno: prima la legge 651 che prorogava in via provvisoria la durata della Cassa per il Mezzogiorno, poi la successiva e alquanto casuale soppressione e liquidazione della Cassa (che derivava dalla mancata traduzione in legge di un decreto); salvo poi ribadire, con il successivo DL del settembre 1984 (il n. 581), la volontà del Governo dell'epoca di proseguire nell'intervento straordinario, con il corollario finale della legge 64 del 1986, con la quale si rilanciava ancora una volta, su basi novennali, la politica meridionalista dello Stato. Una politica che, con il senno e l'esperienza del poi, possiamo ritenere priva di respiro e di strategia. E che comunque fallì.
E' interessante vedere Carrus alle prese con il garbuglio di questi indirizzi legislativi, dietro i quali si intuisce l'assenza ormai di un unico pensiero, di una classe dirigente com'era stata quella del dopoguera, capace di tenere saldamente in mano e di orientare verso rotte sicure il timone della barca. Si procedeva – questo era del resto già visibile nel decennio precedente ma adesso più nettamente predominante – per aggiustamenti successivi, non sempre coerenti, subendo la pressione degli interessi che premevano sullo Stato in tempi di acuta crisi economica. Non valeva proclamare – come farà in quegli stessi anni Bettino Craxi – "la nave va". La nave procedeva in verità senza una rotta sicura, sottoposta al gioco al massacro delle corporazioni. Lo si vide, proprio negli anni Ottanta, in un altro settore decisivo dell'elaborazione del Parlamento, nella legislazione sul pubblico impiego (non a caso ora di nuovo "sul pubblico impiego", non più – come aveva vanamente chiesto Giannini all'inizio del decennio – sulla riforma globale dell'amministrazione, sulle strutture cioè e sulle modalità organizzative).
In quei tempi toccò a Nino Carrus di fare il parlamentare. E lo fece, oggi possiamo dirlo, bene, in modo esemplare. Di Carrus parlamentare mi sono fatto un'idea precisa in questi ultimi anni. Passando io stesso, sia pure in una esperienza che so è già conclusa, nella stessa aula della Camera.
Esiste un modello di parlamentare che oggi è rarissimo, anche se non impossibile, trovare in natura. E' quello del deputato o del senatore che studia le carte, si prepara sui problemi, segue passo per passo la dinamica dei provvedimenti, mantiene un saldo cordone ombelicale con la realtà che lo ha espresso, riporta nel territorio i risultati del lavoro nelle camere. Un lavoro faticoso, oscuro, che non dà notorietà . Carrus fu uno specialista, un maestro di questo tipo di lavoro oscuro ma essenziale.
Oggi, lo dico anche autocriticamente dopo aver passato cinque anni della mia vita alla Camera, questo tipo di specialismo è assai raro. Oggi si viene intanto nominati, non più eletti, cioè scelti dagli elettori. Quindi solo a prezzo di un atto di volontarismo anche un po' inutile e dispendioso si può cercare e mantenere un rapporto con il territorio. Rapporto non più mediato da partiti in pratica inesistenti se non negli organismi di vertice locale. Rapporto che del resto paga poco, specie quando non si accompagna a opportune strategie di fidelizzazione nelle correnti nelle quali i partiti sono articolati.
Poi, oggi, l'attività del Parlamento è largamente subordinata all'iniziativa dominante del Governo (e l'abuso dei decreti legge e dei voti di fiducia priva spesso il singolo parlamentare della possibilità concreta di incidere individualmente sugli atti nel loro processo formativo).
Poi ancora esiste oggi una modalità dell'apparire che contagia quasi universalmente i parlamentari. Il decalogo di questa che chiamerei la legge non scritta dell'apparire ad ogni costo impone di cercare se possibile il massimo della legittimazione nella frequenza delle comparse in televisione e sui media, di sostituire il ragionamento e lo studio con la incisività e la rapidità tempestiva dei comunicati e specialmente con l'attività di promozione personale su internet.
Modificando anche, in relazione a questi contesti comunicativi, il proprio linguaggio, rendendolo semplificato, autoreferenziale, a-problematico, quasi sloganistico. Il che esclude le lunghe pagine di dati e riflessioni sui numeri che troviamo negli scritti di Carrus, ed anche quel di più di cultura che fa da trama a molti suoi interventi. La retorica dell'immagine sostituisce la compiutezza del ragionare.
C'è un male oscuro nella politica dei nostri anni, un male che forse incombeva anche in quella degli anni di Carrus, ma che allora ancora non aveva rotto gli argini. Parlo di una politica dal pensiero corto, che guarda alle generazioni dell'oggi e non a quella del domani. E lo fa anche perché le manca (manca in troppi dei suoi protagonisti e dei suoi comprimari) il senso della storia, del veniamo da lontano e andiamo lontano per dirla con un frasario estraneo alla cultura di appartenenza di Nino Carrus. Perché, insomma è miope e non presbite. Una politica che non dirige, ma è etero diretta e tutt'al più – se va bene – rispecchia le spinte provenienti dalla società , senza saperle risolvere in una sintesi, senza saper dare loro un senso e una direzione univoca sulla base della selezione degli interessi. Una politica che non ha più strategie, ma solo tattiche, spesso personalistiche dei singoli leaders. Che non ha visioni, quando oggi le grandi masse prive di identità che hanno sostituito la società delle classi si muovono e diventano attivamente protagoniste del loro destino solo se subiscono l'emozione di una visione generale, l'idea che vale la pena di mettersi in gioco per una prospettiva di miglioramento (e di felicità personale, anche). Una politica che ha perso, allo stesso tempo, il rigore degli specialisti del bilancio e la capacità di suscitare sogni dei grandi leaders visionari.
In ciò Nino Carrus è inattuale e attuale al tempo stesso.
Inattuale, perché oggi parlerebbe – penso – in un'aula deserta, presenti pochi altri specialisti del bilancio; o ragionerebbe in una commissione bilancio nella quale forse non troverebbe molti all'altezza di interloquire a livello tecnico e di conoscenza approfondita della materia come invece gli accadeva ai suoi tempi, che poi sono anche i tempi di Giorgio Macciotta.
Attuale, attualissimo perché se la politica, e in essa l'istituzione parlamentare, vogliono riconquistare un ruolo (direi, senza paura di esagerare, vogliono riconquistarsi l'onore perduto) non c'è altra strada che quella di Carrus: specialismo, competenza assoluta frutto di fatica sulle carte, passione politica, capacità di inquadrare i problemi, anche i più tecnici, della legislazione corrente nella prospettiva del progresso e dello sviluppo. Consapevoli, come certo era consapevole Nino Carrus, che altre strade non ne esistono. Perché la democrazia parlamentare è e resta l'unico modo, per quanto imperfetto esso appaia, di governare le società complesse.