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I 30 anni della Confederazione Sindacale Sarda

di Francesco Casula

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La Confederazione Sindacale Sarda (CSS) si avvia verso il 7° Congresso nazionale che celebrerà il 22 marzo prossimo a Cagliari. Coincide quest’anno con il 30° Anniversario: una bella età, soprattutto se si tiene conto che gli avversari, ad iniziare da CGIL-CISL UIL, impietosamente bollati come “sindacati di stato”, le avevano pronosticato qualche anno di vita. La CSS è nata infatti il 20 Gennaio 1985: è il terzo Sindacato etnico in Italia dopo quello valdostano (SAVT), fondato nel 1952 e quello Sudtirolese (ASGB) nato nel 1978. Con questi due sindacati etnici italiani come con i sindacati etnici europei (Corsi, Baschi, Galeni e Catalani) che saranno tutti presenti al Congresso di Marzo, la CSS ha un rapporto di tipo federativo. Secondo il compianto Eliseo Spiga, l’ideatore nonché primo segretario nazionale, il sindacato sardo – o della Nazione sarda, come ama definirsi – nasce per difendere i sardi sia come lavoratori (salario, occupazione, orario e condizioni di lavoro) sia come sardi e dunque nella loro dimensione culturale e linguistica. Di qui la battaglia campale della CSS a favore del Bilinguismo. Ma, anche in forte polemica con i Sindacati italiani – CGIL-CISL-UIL in primis – nasce soprattutto contestando duramente il tipo di sviluppo che lo Stato – con la complicità delle classi politiche sarde e degli stessi sindacati – ha imposto alla Sardegna negli ultimi 50 anni,uno sviluppo tutto giocato sulle industrie nere e inquinanti della grande industria in specie quella chimica e petrolchimica ma anche metallurgica (privata ma soprattutto di stato): sviluppo che dai poli si sarebbe diffuso nel territorio, creando occupazione e sviluppo: ma nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto. Di contro, tale industrializzazione ha devastato e depauperato il territorio, la risorsa più pregiata che l’Isola possiede; ha degradato e inquinato l’ambiente; ha sconvolto gli equilibri e le vocazioni naturali dell’Isola; ha distrutto il tessuto economico tradizionale e quel minimo di imprenditorialità locale (soprattutto nel settore agro-alimentare); ha attentato alla cultura e alla identità etno-nazionale dei sardi, tentando di eliminare le specificità linguistiche, culturali e storiche, magari con il pretesto dei combattere il banditismo: è il caso soprattutto di Ottana. Proprio Ottana riassume emblematicamente il fallimento dell’industrializzazione in Sardegna. Per capirla è necessario fare un po’ di storia. Alla fine degli anni ’60 la Commissione parlamentare d’inchiesta sul banditismo, presieduta dal senatore Medici individuò nell’ambiente agropastorale e nelle condizioni economiche e sociali del Nuorese la causa prima del banditismo: di qui la scelta di Ottana e della grande industria che avrebbe dovuto trasformare il pastore in operario, con la tuta e non più con la mastruca. “Nella Rinascita c’è un posto anche per te” si promise a tutti i barbaricini e ai disoccupati in primis. Si è trattato di un mostruoso tentativo di rivoluzione antropologica e culturale prima ancora che economica e sociale. Furono previsti e promessi 8-10 mila posti di lavoro. Oggi sono in liquidazione anche gli ultimi operai rimasti. Plurimi e di diversa natura i motivi del clamoroso fallimento: si è trattato di grandi industrie filiali e succursali di grandi complessi statali che “esportavano”

nell’Isola manager, dirigenti, personale qualificato, tecnologie. I centri quindi economici-finanziari-decisionali stavano fuori non in Sardegna. Di industrie che lavoravano – soprattutto quelle chimiche – materie prime di cui la Sardegna non disponeva e dunque soggette alle variazioni e alle crisi del mercato: è bastato l’aumento del petrolio e/o la dotazione da parte dei paesi produttori di industrie di trasformazione per mettere in crisi Ottana e company. già negli anni Settanta con la crisi petrolifera. Si è trattato inoltre di industrie ad alta intensità di capitale (si è arrivati a un miliardo di vecchie lire per posto di lavoro e siamo prima dell’euro!); a poca intensità di mano d’opera; senza stimoli per il mercato interno, senza creazione di indotto proprio perché senza alcun rapporto e collegamento con il territorio e le risorse locali . Che dunque non crea sviluppo endogeno e autocentrato. Soprattutto si è trattato di una industrializzazione che prevedeva solo le prime lavorazioni o comunque fasi limitate del ciclo produttivo: raffinerie o produzione di etilene (fibre) quando tutti gli economisti sostengono che è nelle seconde e terze lavorazioni ma soprattutto nella chimica fine che si ha molto sviluppo, ovvero: molta occupazione, poca intensità di capitale ma soprattutto molta ricchezza che deriva dal “valore aggiunto”. Nonostante le chiacchiere e le richieste dei Sindacati italiani – peraltro mai troppo convinte – di avere in Sardegna le seconde e terze lavorazioni e la chimica fine, l’Isola per decenni ha sempre continuato con la petrolchimica di base e dunque ha continuato a operare quel meccanismo infernale neocoloniale, - tipico del colonialismo, compreso quello interno - che gli economisti chiamano “lo sviluppo ineguale”. Secondo il quale la Sardegna – e molte zone del Meridione – produce ed esporta semilavorati mentre importa prodotti finiti ad alto valore aggiunto, in questo scambio ineguale la Sardegna continua a impoverirsi e il Nord Italia dove si fanno le seconde e terze lavorazioni si arricchisce viepiù. Per convincersi guardare i dati ISTAT di ieri e di oggi, per quanto attiene al PIL ma non solo. Di qui la proposta della CSS perché finalmente si imbocchi una rotta radicalmente diversa per uno sviluppo endogeno, autocentrato ed ecocompatibile, basato sulle risorse locali. La strategia dello sviluppo – scrive Giacomo Meloni l’attuale segretario della CSS – è vincente se ha la capacità di creare coesione, ascoltare la pluralità delle voci del popolo sardo e far assurgere a valori identitari, insieme alla lingua, alla cultura, ai saperi tradizionali anche l’ambiente l’economia e i sapori della nostra terra.

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