OLZAI. Incontrai per la prima volta Paolo De Benedetti poco meno di venticinque anni fa, in occasione di un convegno a Milano. Quando mi presentai dicendogli che provenivo da Olzai, il suo sguardo si illuminò di un caloroso sorriso: mi fece grandi feste e cominciò a raccontarmi la sua lunga amicizia con suor Maria Giovanna Dore (1900-1982). Una storia cominciata nel 1961 grazie a Cosimo, il bambino abbandonato alla sorte che, a dispetto delle ferree regole della clausura, fu adottato dalle monache per tutta la sua vita fino alla morte.
Quella tra Paolo De Benedetti e suor Maria Giovanna fu vera amicizia, vissuta unicamente attraverso uno scambio di lettere. Sembra un paradosso, ma forse per questa ragione non ebbero mai la necessità di incontrarsi personalmente. Solo raramente si sentirono al telefono. In pratica fu una “amicizia di penna”, ma non per questo limitata ai convenevoli e alle speculazioni intellettuali. Al contrario, divenne un legame profondo e affettuoso, costellato dalle piccole cronache degli accadimenti quotidiani, e segnato anche dagli affanni e dai lutti familiari. La prima lettera è del 1963, l’ultima del 1981: diciotto anni di corrispondenza pari a circa settecento pagine.
Nel 1985 De Benedetti aveva curato e fatto pubblicare dalla Morcelliana «uno dei libri più ricchi di sapienza cristiana, di teologia vissuta e di poesia che ci sia occorso di leggere negli ultimi tempi»: Lettere agli amici, ponte di comunicazione tra l’interno del monastero olzaese e il mondo esterno, rappresentato da ben 51 lettere inviate tre volte all’anno agli amici e benefattori dal 1964 al 1981.
Dopo il primo incontro a Milano rimanemmo saltuariamente in contatto, poche telefonate e qualche scambio di lettere. Ma ero sempre all’erta per non perdermi neppure una puntata di Uomini e profeti, quando potevo ascoltare avidamente la sua inconfondibile voce – “voce di silenzio sottile” (1 Re 19, 12-13) – che dentro di me risuonava così familiare da suscitarmi grande emozione, ma anche qualche risata per una delle sue solite battute argute.
Nell’estate del 2000 mi inviò in dono il piccolo volume A sua immagine, «che Gabriella Caramore ha ricavato dalle trasmissioni di Uomini e profeti: le confesso che non ho letto questo mio libretto, proprio per la mancanza di tempo. Ne tenga conto! [allora ci davamo del lei]». Aggiunse poi che la badessa di Lodine «sta rivedendo il libro di sr Marta su Madre Dore: penso, anzi so che la Morcelliana lo pubblicherà verso la fine dell’anno. Sr M. Emmauela progetta un convegno per il centenario della nascita di Giovanna Dore: per forza, il convegno dovrà aver luogo dopo l’uscita del libro, e quindi nel 2001. Ma va bene lo stesso, anzi capita quasi sempre così. Ho letto con molto interesse i suoi due articoli storici sugli ospedali. Ricordo che Carlo Borromeo aveva stabilito che se un malato non si confessava entro tre giorni dal ricovero, il medico non doveva curarlo. Dati i medici di allora, forse il malato non ci rimetteva molto…».
Il convegno del centenario si tenne a Lodine nel settembre 2001. Come previsto Paolo De Benedetti era tra i relatori. Di madre Dore, tra l’altro, disse: “Io spero che non venga beatificata e canonizzata, perché non merita di finire in un elenco affollatissimo che cancella le identità”.
Quelle di Lodine furono giornate molto intense, ed ebbi finalmente la rara opportunità di stare in sua compagnia durante le escursioni in auto, ma soprattutto a tavola quando parlavamo di tutto, anche di cucina e di preferenze culinarie. A Fonni visitammo la basilica dei Martiri con Gabiella Caramore, anche lei relatrice del convegno, che restò conquistata dal modo pittoresco con cui il frate laico ci illustrava gli affreschi del santuario francescano.
Naturalmente non mancò il “pellegrinaggio” a Olzai, dove Paolo poté vedere finalmente il vecchio monastero, ormai abbandonato dopo il trasferimento delle monache a Lodine. Volle visitare anche il cimitero, quello “che non può fare paura a nessuno, collocato com’è, dolcemente, su una bellissima spianata” (M.G. Dore).
La tomba delle monache benedettine si trova nella parte alta del primo campo. Ci fermammo davanti alla lastra marmorea su cui è incisa l’iscrizione tratta dall’inno pasquale, che parla dei discepoli impazienti di rivedere il volto amato del maestro, pergunt vidère faciem desideratam Domini.
In una delle loro rare telefonate – quando morì la signora Teresa madre di Paolo, la vigilia di Natale del 1974 - suor Maria Giovanna gli disse: «La nostra vita… continuo scampo dall’Inseguitore… e approdo alla liberazione infinita».
Restò un po’ assorto davanti alla tomba e da alcune espressioni del viso mi sembrò di capire che intendeva ripulire la lastra un po’ in disordine. Ci guardammo intorno alla ricerca di qualcosa che somigliasse a una scopa, la trovammo e lui stesso cominciò a ripulire il marmo dal fogliame secco e dalla polvere. Fu come una rivelazione: corporeità e materialità della tradizione ebraica si erano manifestati in quel gesto inaspettato. Forse è per questo che a lui non era mai piaciuta la cosiddetta Lettera a Diogneto, secondo cui i cristiani sono in questo mondo ma non sono di questo mondo.
Dopo la morte di madre Maria Giovanna, Paolo restò in corrispondenza con suor Maria Marta Morganti (1911-1995) il cui pensiero – a suo parere - era molto libero, fin troppo avanti anche nei confronti delle aperture del Secondo concilio vaticano. Tornò sull’argomento in più occasioni, facendomi intendere che quelle lettere avrebbero dovuto aspettare un bel po’ prima di essere pubblicate e, nell’attesa, era quasi dispiaciuto di non sapere a chi affidarle.
Prima di diventare monaca, suor Maria Marta aveva preso parte attiva alla resistenza clandestina milanese, entrando in contatto con Ezio Franceschini. Paolo mi raccontò un aneddoto alquanto curioso: pare che suor Morganti, desiderosa nel dopoguerra di realizzare la sua vocazione religiosa, perlustrasse l’intera penisola alla ricerca di «una madre badessa antifascista», trovandola alla fine nel cuore della Barbagia. Suor Maria Marta era la poliglotta della comunità: traduceva libri dal francese e dall’inglese, e fu brillante interprete quando - negli anni del Concilio – giungevano in monastero gli ospiti stranieri di passaggio.
Nel ritiro di Amelia suor Maria Marta andava riordinando pazientemente materiali e ricordi in preparazione della biografia della madre fondatrice. Alla fine consegnò il manoscritto a De Benedetti, che a sua volta lo depositò presso la Morcelliana. Ma il lavoro, per diverse ragioni, attese una decina d’anni prima di essere mandato in stampa. «Suor Marta, per discrezione e con molta eleganza, non me ne chiese mai conto», commentò. Morì infatti senza avere visto pubblicato il suo libro.
Nel settembre del 2003 ci incontrammo in un’aula della Facoltà teologica milanese. Mi invitò a pranzo e mi raccontò diversi aneddoti alquanto gustosi, alcuni riguardanti gli ambienti delle case editrici. Due anni dopo mi diede appuntamento ancora a Milano nella sua bella casa affacciata sul Naviglio, dove chiacchierammo del più e del meno. Non riuscii a trattenermi dal chiedergli un’opinione sul neoeletto papa tedesco: mi rispose candidamente che gli piaceva perché amava i gatti, circostanza che a suo parere faceva ben sperare. Oltre a sorprendermi, la risposta mi divertì molto: era come se il più autorevole teologo degli animali, conferisse l’onorificenza “gattilenica” al romano pontefice. Dopo un mese, ricevetti l’edizione fresca di stampa di La morte di Mosè e altri esempi: come altre volte, la dedica era scritta con la solita grafia tremula. Negli ultimi anni gli si era aggravato il fastidioso sintomo del tremore, tanto che per scrivere era costretto a tenere ferma la mano, aiutandosi con l’altra. Lui un po’ ci scherzava, come quando mia madre a Olzai gli servì il caffè e dovetti aiutarlo a riporre la tazzina: insomma, non ne faceva un dramma. Anche in queste seccature e nelle piccole cose quotidiane si dimostrava un grande.
Nel gennaio 2011 mi chiamò al telefono per confermarmi che aveva ricevuto il mio profilo biografico sul dottor Francesco Dore e una testimonianza che avevo scritto di recente su Grazia Dore. Mi disse che nel leggere il testo su Grazia era come se gli fossero sfilati davanti tutti i membri della famiglia Dore, pur non avendoli mai conosciuti. Ma soprattutto, benché ne avessi fatto solo un accenno, gli si era profilata di nuovo la figura a lui cara di madre Giovanna. Man mano che parlava avvertivo un’incrinatura della voce. Salutandomi, mi diede appuntamento alla domenica successiva, quando sarebbe stato ospite a Uomini e Profeti, per parlare nuovamente della morte di Mosè.
Salvatore Murgia
Biografia di Paolo De Benedetti
Paolo De Benedetti nacque ad Asti il 23 dicembre 1927 da Ettore e Teresa Alieri. Il padre era un medico discendente da una antica famiglia ebraica sefardita, la madre cattolica praticante. Per questo motivo la sorella Maria ricevette il battesimo alla nascita, mentre Paolo chiese di essere battezzato all’età di nove anni. Laureatosi a Torino in filosofia, si specializzò in lingue orientali, e negli stessi anni lo studio della lingua ebraica, appresa da autodidatta, l’avviò all’esegesi biblica e alla letteratura rabbinica.
Paolo De Benedetti è stato un intellettuale di punta nell’editoria italiana del ‘900. Nel 1952 fu assunto alla casa editrice Bompiani, dove in seguito gli fu affidata la direzione del Dizionario delle opere e dei personaggi. Su mandato di Valentino Bompiani, contattò e favorì l’assunzione di Umberto Eco, con cui strinse un duraturo legame di amicizia e di stima, tanto che un personaggio de Il Pendolo di Foucault sarebbe stato modellato sulla sua figura. De Benedetti fu il primo a diffondere in Italia il pensiero di Dietrich Bonhoeffer con la traduzione di Resistenza e resa e l’Etica, usciti in una delle prime collane teologiche in Italia senza l’obbligo dell’imprimatur, cosa di cui andava molto fiero.
Passato alla Garzanti, fu tra i responsabili della Enciclopedia Europea, in quegli anni la più importante innovazione nel suo genere dopo l’Enciclopedia Treccani. Curò anche le voci riguardanti il giudaismo e i rapporti tra ebrei e cristiani nella Garzantina delle religioni. Presso l’editrice Morcelliana fondò le collane Shalom e il Pellicano rosso, mantenne rapporti di collaborazione con la San Paolo, Gribaudi, Quiqajon, Giuntina, Marietti e Utet. La sua bibliografia conta un numero sterminato di titoli, rappresentati da opere in volume, articoli, dispense, interventi ai convegni, prefazioni e presentazioni di libri di altri autori.
Con Giampaolo Dossena e Mario Spagnol, sotto lo pseudonimo collettivo di “I Wutki”, collaborò a Linus, allietando i lettori della mitica rivista diretta da Oreste Del Buono, con limerick, versi di nonsense e paradossi.
Per decenni fu presidente e animatore delle iniziative culturali di Biblia. Grande fu il suo impegno in ambito accademico, con la docenza di Giudaismo nella Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano, e con l’insegnamento di Antico Testamento presso gli istituti di Scienze religiose di Urbino e di Trento.
L’eccezionale vastità del suo sapere, unita alla duplice identità ebraico-cristiana, lo qualificavano come uno dei maggiori esperti di esegesi biblica e giudaismo, e ne fecero un costruttore di ponti tra ebraismo e cristianesimo. Per questi motivi era molto ascoltato e quasi conteso, oltre che negli ambienti accademici, nei convegni, nelle parrocchie e nei gruppi di dialogo.
Il suo timbro di voce flebile divenne familiare alla cerchia dei frequentatori di Uomini e profeti, il programma radiofonico della Rai ideato e condotto da Gabriella Caramore, che per anni lo ebbe tra gli ospiti più cari, accanto a Sergio Quinzio, Enzo Bianchi e Paolo Ricca. I suoi «forse» e l’espressione rabbinica «se così si può dire», motivi ricorrenti nelle sue conversazioni, erano come un invito a coltivare il dubbio invece che inseguire labili certezze. Amava ripetere che nell’altra vita l’eternità sarebbe trascorsa ponendo molte domande a Dio, quelle a cui non aveva dato risposta nella vita terrena. Dalla trascrizione di alcune puntate nacquero quei deliziosi libri intervista piccoli di formato, ma densi di contenuto, per la ricchezza di sapienza biblica e per l’incondizionato amore verso tutte le creature viventi: in particolare, l’amore per gli animali trasformatosi in “teologia degli animali”, tema di alcune sue conversazioni radiofoniche, confluite puntualmente in un omonimo libretto.
Fu amico personale del cardinale Carlo Maria Martini, che lo chiamò alla preparazione della Cattedra dei non credenti e a collaborare alla revisione della Bibbia Cei: presentò una lunga lista di correzioni, alcune delle quali purtroppo non accolte in commissione, e gliene dispiacque.
In occasione del suo ottantesimo compleanno le riviste Humanitas e Qol gli dedicarono entrambe un numero monografico, con le firme di autorevoli rappresentati della cultura italiana, il cui elenco sarebbe troppo lungo da riportare. Oltre a quelli già nominati, furono suoi amici David Maria Turoldo, Piero Rossano, Italo Mancini, Enzo Bianchi, Angelo Casati, Silvia Giacomoni, Giorgio Bocca, Maurizio Ciampa, Amos Luzzatto, Piero Stefani, Salvatore Natoli, Gianni Vattimo, Piergiorgio Cattani.
Nel marzo 2015 alla libreria Claudiana di Milano fu presentato il libro intervista Il paradiso delle piccole cose, curato da Pietro Maria Cerati e Luigi Rigazzi, in cui Maria e Paolo De Benedetti si raccontano in prima persona, svelando particolari inediti della loro vita e della storia familiare. Fu l’occasione per la sua ultima uscita da Asti accompagnato dalla sorella Maria. Quasi a suggello dell’antica amicizia, alla serata presero parte Umberto Eco e Giuseppe Laras.
Paolo De Benedetti si è spento serenamente sulla soglia degli 89 anni la mattina di domenica 11 dicembre 2016. Le sue esequie sono state celebrate ad Asti nella chiesa di Nostra Signora di Lourdes.
(s. m.)