Quando Mesina fu preso nel 1968 era già un mito: "Grazianeddu" a diminutivo d'affetto. Così lo chiamano ancora oggi scrittori alla moda e opinionisti d'accatto. In quel '68 ne cantavano le gesta: la fuga dalla prigione al ritmo simil operaista di "mi chiamo Brambilla", i sequestri come fosse cosa da robin hood, gli scontri a fuoco con la polizia. Io ero un ragazzo. Avevo passato cinque anni a studiare da missionario e mi riusciva difficile capire tutto questo entusiasmo popolare per uno che aveva ucciso e sequestrava, "pro unu bannitu". Vedevo i baschi blu, comente tzilipirke, cavallette: nelle strade di Nuoro e del mio paese. Lo ho scritto altrove: erano come i soldati spagnoli occupanti l'Italia del Seicento nei "Promessi sposi". Si diradavano per le vigne a diradar l'uve e alleggerire le fatiche dei contadini. E qualche volta invece di accarezzar loro le spalle a qualche padre e marito o fidanzato erano loro che ne prendevano. Anche netti rifiuti, disprezzo. Perdurava ancora la memoria della "Cremona" dopo l'8 settembre 1943. Questi però non avevano più fame, né portavano pidocchi. La divisa, le tute mimetiche, li segnava come truppe d'occupazione. Alimentavano l'altra parte del mito: quella che vuole che in necessità di repressione abbondino poliziotti e soldati. C'era banditismo ma furono inventati gli anni del banditismo caldo in Sardegna. Uno come Mesina poteva e doveva essere evitato invece ne incrementarono l'immagine. Come ancora oggi fanno televisione e giornali. In quel '68 i muri della Sardegna dell'interno erano tappezzati di taglie. Grande povertà , strade non ancora asfaltate. Io ero ragazzo e i soldati, le truppe di occupazione, mi risultavano corpi estranei. Li osservavo con un misto di fastidio e paura. Le taglie, un bianco/nero da tumulo mortuario, le rassomigliavo ai manifesti lungo il corridoio dell'istituto saveriano di Macomer: un ripetersi di immagini della Chiesa oltrecortina, perseguitata nei paesi dell'Est. Come un incubo. Sentivo miei coetanei associare lo spirito di rivolta a "Grazianeddu". Quanto puote il mito. È in quel tempo che mi sono disabituato a entrare in chiesa. Non cantavo messa coi rivoluzionari che poi neppure tradirono. Esibivano atteggiamenti, mischiavano il Che con uno che iniziò la carriera da balenteddu di paese. Io ero ragazzo ma tutto questo "vedevo": Nuoro e dintorni come terra desolata. La sera di quel '68 che fu preso Mesina la curiosità mi spinse a fare ressa per andare a vederlo uscire ammanettato dalla questura di via Salaris, a Nuoro. Ricordo che per non essere schiacciato da chi spingeva alle spalle mi attaccai alla cintura di un poliziotto, quelli che facevano cordone. Il balente mi è passato davanti, faccia a faccia. Nessuna impressione destò in me, né maraviglia, né esaltazione, né paura. Non mi rappresentava niente.