Sta per ghiaccio, gelo, in limba sarda. È, o dovrebbe, essere una condizione del presepe. Di questi tempi non ne è neppure convenzione. Il ghiaccio che sperimentiamo è quello che la mattina dobbiamo togliere dai vetri delle macchine, a motore acceso, per non arrivare tardi al posto di lavoro. Poi quello lungo il percorso. Tracce residue, a tratti pericolose. Poi c’è il vero gelo, costruito dalla mancanza del posto di lavoro, dalla sua perdita, dalla sua assenza a priori: per una moltitudine di figuranti in un presepio che di vivente ha soltanto il respiro. Come un furore represso, sfiatato dalla bocca e dalle nari, intangibile come tutta la speranza che tutti i giorni fa cumulo, speranze morte, il nostro albero di Natale. Il paesaggio è desolante. Non c’è verde di muschio in questo presepe fatto di asfalti rotti, di cemento che mostra lo scheletro di armature, aste di ferro arrugginito. Le acque argentate che segnavano, segmentavano e intersecavano vie e sentieri verso la culla del Bambino, l’incanto del Natale, sono scomparse. Hanno straripato giorni fa, altro represso furore fattosi esplosione atomica. Hanno seminato terrore e morte, aggiunto devastazione alla devastazione. Poi si sono ritratte, inghiottite dentro il paesaggio desolato. Concorrono alla formazione del ghiaccio e del gelo. Cala la sera su tutta questa dimensione di infida nebbia. Se non ci accorgiamo in tempo, di come saperla traversare, combattere, c’è il rischio che diventi duratura.