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Don Roberto Carta: ecco la mia Argentina

Il giovane parroco fonnese che attualmente presta servizio a Sarule ci racconta la sua esperienza missionaria

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Scrivere sull’Argentina oggi è un po’ come dover fare nuovamente le valigie, come ripartire, dopo quell’indimenticabile sabato 13 ottobre 2007. Quando mi chiedono perché ho fatto un’esperienza missionaria, sorrido sempre prima di rispondere: penso al vescovo che mi disse, inizialmente per scherzo: “Vai anche tu, insieme a don Totoni?”. Una domanda che mi pose per ben tre volte. Così iniziai a pensarci sul serio e né la paura dell’aereo, né la pesantezza del periodo precedente poterono fermare il volo verso quel nuovo mondo. Un vero e proprio dono, insomma: per accorgermi che ‘missione’ è saper stare per poi andare, affidarsi a Dio, rispondere al suo invito, scoprire che siamo parte di un universo sorprendente.

Va bene. Preparo un’altra volta le valigie, con alcuni ricordi, eventi che riporto al cuore. Primo carico: il fascino di stare insieme. Nel primo ritiro, in Bolivia, con i preti e il vescovo, lasciando scoperte le parrocchie per alcuni giorni, senza esitazioni: è necessario che predichiamo l’importanza della comunione gustando per primi “quanto è bello e soave che i fratelli vivano insieme”. Oppure la settimana con i giovani a Isla de Cañas, dentro un’esperienza che era nello stesso tempo un campo scuola e una missione per gli abitanti di quel paese sperduto.

Secondo carico: l’atmosfera del carcere e dell’ospedale. Ci son voluti 13mila chilometri per trovarli: anche questo può far sorridere! Ma è stato indispensabile per conoscere tanti fratelli reclusi, condividere con loro una pietanza dura come la pietra, un pianto davanti al film ‘La vita è bella’, un ritiro in cui si cerca di ritrovare Dio-Padre … e capire un po’ di più che ogni uomo ha un cuore, merita ascolto e rispetto, sbaglia anche per la rabbia di ciò che non ha ricevuto. Le anguste stanze dell’ospedale, invece, mi hanno presentato il volto dei fratelli che imploravano di donare il sangue, di avvicinare una tazza di tè, di pregare insieme; ma anche la compagnia esemplare di suor Rosalia, che a tutti sapeva portare dolcezza e Vangelo.

Terzo carico: la verità e la larghezza di tanti sorrisi. Chissà quante volte pensiamo, talora con l’ipocrisia di chi non si separa dalle proprie sicurezze, che nei Paesi poveri la gente si accontenta di poche cose. Mi ha sconvolto verificare che spesso è così: l’arte di saper vivere la possiede chi riesce a respirare l’essenziale, che è un misto d’amore e di gioia. Non intendo giustificare l’ingiustizia e la miseria, perché ogni persona umana ha diritto ad una vita buona e dignitosa. Ad ogni modo la felicità che sgorgava dagli occhi dei bambini argentini non l’ho più vista altrove. E la meraviglia non era tanto per un pallone o una bicicletta, quanto per la possibilità di correre, di ridere, di abbracciarsi.

Desidero dedicare alcune righe a due nostri conterranei che non hanno avuto paura di perdere la propria vita per trovarla, come ci insegna Gesù. Sono due testimoni della Buona Novella, che ho visto all’opera proprio mentre mi preparavo all’ordinazione presbiterale. Hanno un ruolo importante nella sistemazione del mio bagaglio.
Don Diego Calvisi raggiunse l’Argentina nel 1980. È considerato un santo dalla gente comune, al punto che esiste già una via con il suo nome! È davvero un uomo spirituale, saggio e tenace, che ha lavorato per la costruzione della comunità ecclesiale, ma anche della chiesa-edificio nelle varie parrocchie in cui ha esercitato il suo ministero. Memorabile è la realizzazione dell’hogar, la casa famiglia per bambini e adolescenti: un’oasi di amore nei casi in cui la famiglia d’origine risulta inesistente o vive in condizioni di grave disagio.

Nel 1990 partì Don Andrea Buttu: un uomo di grande generosità e intraprendenza. Oltre alle varie chiese costruite, ricordiamo l’attenzione costante per gli ultimi anche attraverso la Caritas, la recente edificazione del comedor (mensa) e del Centro salud nel Barrio estación di Orán.

È un’impresa ostica raccontare l’Argentina. Tante cose non riesco ancora ad esprimerle, come avviene per certe grandi emozioni. Le valigie sono comunque pronte: per l’ottobre missionario, per gli anni a venire, per seguire Gesù dove lui mi indicherà, senza necessariamente prendere l’aereo. Non ho paura, perché è un carico leggero, il suo.

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