Il 22 novembre scorso ricorreva il 99° anniversario della nascita di Antonio Simon Mossa, il teorico (e padre) del moderno indipendentismo sardo, del tutto rimosso e dimenticato dalle Istituzioni sarde, dalla cultura (e scuola) ufficiale e dagli stessi Partiti e Movimenti che pur si dichiarano sardisti,indipendentisti e sovranisti.. Algherese, Antonio Simon Mossa è un architetto di talento, arredatore, urbanista e artista di genio, insegnante dell’istituto d’arte e scenografo, intellettuale dagli interessi pressoché enciclopedici e dalla forte sensibilità artistica, viaggiatore colto e curioso del nuovo e del diverso tanto da spaziare con gusto e competenza nell’ambito di una pluralità vastissima di arti: dalla letteratura alla pittura e alle arti popolari. Ma è anche brillante ideologo indipendentista (una indipendenza non solo di liberazione economica e sociale ma anche di libertà di tutto il popolo sardo dal punto di vista etnico, etico e culturale) e di un nuovo Sardismo, giornalista e polemista ironico e versatile, viaggiatore colto e aperto alle problematiche delle minoranze etniche mondiali, ma soprattutto europee. Conoscendole direttamente, per così dire de visu, si rende conto della drammatica minaccia di estinzione che pesa su di esse: oramai sul bilico della scomparsa. Contro di esse è in atto infatti un pericolosissimo processo di “genocidio”, soprattutto culturale ma anche politico e sociale. Si tratta di minoranze che l’imperiale geometria delle capitali europee vorrebbe ammutolire. Simon Mossa aveva infatti verificato la tendenza del genocidio culturale e non solo, dei popoli senza stato, delle piccole patrie, incorporate e imprigionate coattivamente nei grandi leviatani europei e mondiali, centralisti e accentrati, entro un sistema artificioso di frontiere statali, sottoposti a controllo permanente, con evidenti fini di spersonalizzazione, ridotti all’impotenza e di continuo minacciati delle più feroci rappresaglie, se mai tentassero di rompere o indebolire la sacra unità della Patria. All’interno di tali minoranze colloca la Sardegna che considera una unità o comunità etnica ben distinta dalle altre componenti dello Stato Italiano. Per annichilire l’identità etno-nazionale dei Sardi è in atto – secondo Simon Mossa – un processo forzato di integrazione che minaccia l’identità culturale, linguistica ed etnica, anche con la complicità di molti sardi che si lasciano comprare. Uno degli elementi che per Simon Mossa devasta maggiormente l’Identità di un popolo è l’attacco alla cultura e alla lingua locale: in Sardegna dunque il divieto e la proibizione della cultura e della lingua sarda (ad iniziare dalla scuola di stato) e segnatamente dell’uso pubblico e ufficiale del Sardo. L’ideologo nazionalitario e indipendentista sa bene che un popolo senza Identità, in specie culturale e linguistica, è destinato a morire: Se saremmo assorbiti e inglobati nell’etnia dominante e non potremmo salvare la nostra lingua, usi costumi e tradizioni e con essi la nostra civiltà, saremmo inesorabilmente assorbiti e integrati nella cultura italiana e non esisteremo più come popolo sardo. Non avremmo più nulla da dare, più niente da ricevere. Né come individui né tanto meno come comunità sentiremo il legame struggente e profondo con la nostra origine ed allora veramente per la nostra terra non vi sarà più salvezza. Senza Sardi non si fa la Sardegna. I fenomeni di lacerazione del tessuto sociale sardo potranno così continuare, senza resistenza da parte dei Sardi, che come tali, più non esisteranno e così si continuerà con l’alienazione etnica, lo spopolamento, l’emarginazione economica. Ma questo discorso è valido nella misura in cui lo fanno proprio tutti i popoli parlanti una propria originale lingua e stanziati in un territorio omogeneo, costituenti insomma una nazione che sia assoggettata e inglobata in uno Stato nel quale l’etnia dominante parli una lingua diversa. Poliglotta e appassionato studioso di lingua e di linguistica – fra l’altro traduce in Sardo il Vangelo e scrive ottave deliziose – ritiene che Il sardo lungi dall’essere un dialetto ridicolo è già, ma in ogni modo può e deve essere una lingua nella misura in cui sia parlato e scritto da un popolo libero e capace di riaffermare la propria identità. A questo proposito pone questo interrogativo: Hai mai meditato su ciò che significa l’esclusione della nostra lingua madre dalle materie di insegnamento delle scuole pubbliche e il divieto di farne uso negli atti «ufficiali» ? Ci regalano insegnanti di un italiano spesso approssimativo e zeppo di provincialismo e noi non abbiamo il diritto di esprimerci adeguatamente nella nostra lingua! Ci hanno privato del primordiale e più autenticamente «autonomista» strumento di comunicazione fra gli uomini! Sostiene ciò nel Luglio del 1967, molto prima che in Sardegna la questione del “Bilinguismo perfetto” diventasse oggetto di discussione prima e di iniziativa politica poi: a buona ragione possiamo perciò considerare Simon Mossa, il vero profeta e anticipatore delle proposte prima e della Legge regionale 26 sul Bilinguismo poi. Con acume e perspicacia aveva capito che il problema della lingua sarda non era tanto o soltanto parlarla, magari nell'ambito familiare, ma scriverla e soprattutto insegnarla nelle Scuole di ogni ordine e grado come materia curriculare; usarla nella Pubblica Amministrazione, nei media, (da quelli tradizionali: Giornali e Radio, ai nuovi: Internet ecc.); nella Toponomastica, nella Pubblicità. Il problema era cioè (ed è) la sua ufficializzazione. Oggi noi nel 2015 sappiamo bene che la lingua sarda, al di fuori di questa prospettiva è destinata a morire o, al massimo, a vivacchiare e languire, marginalizzata, ghettizzata e folclorizzata nei bim-bo-rimbò delle feste e delle sagre paesane, magari ad uso e consumo dei turisti e dei vacanzieri annoiati. Simon Mossa questo lo aveva capito ben più di 48 anni fa.