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Sergio Grasso: "Il petrolio dei sardi sta anche nella loro cucina: orgoglio domestico e paesano, identità, espressione creativa, esperienza collaudata nei millenni"

A cura della redazione
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E’ alla Sardegna che dedica due intense riflessioni Sergio Grasso, il “gastrosofo” antropologo culinario che appare in tante trasmissioni televisive di cucina e enogastronomia. E’ un docente di Analisi Sensoriale, etno food e storia sociale del cibo. Un curriculum che lo colloca tra i massimi esperti in materia, e la Sardegna con le sue variegate caratteristiche culinarie, è un buon terreno di studio per lui, che la analizza, dimostrando profonda conoscenza dell’isola.

Un patrimonio vastissimo, posto sotto la lente d’ingrandimento dallo studioso, che testimonia quanto la nostra tradizione culinaria rispecchi a fondo il carattere dei sardi. Un ottimo spunto di riflessione, non per celebrare il passato e le nostre tradizioni, ma per riflettere sul prossimo futuro, sia sulle grandi potenzialità delle nostre produzioni, sia sulla tanto declamata autonomia alimentare.

Buona lettura.

E' l'Isola Madre. Appartata, raccolta attorno a civiltà primordiali e severe, colma della sua fatica e austera nella sua dignità. La Sardegna è un paradigma temporale in cui sopravvive un culto arcaico, sapiente e spontaneo per il cibo semplice. Il Sardo è avaro solo di parole e ha la consapevolezza precisa delle proprie radici soprattutto quando si siede a tavola, quando annusa la qualità di un pecorino, quando taglia il pane o divide un carciofo con la resolza, quando scandaglia negli occhi il pesce del mercato. Lo fa, lo gode con gesti minimi e giudizi misurati ma inflessibili, acquisiti dai padri con la stessa naturalezza del linguaggio.
 

Scostata da una scostante madre patria - lontana più per distrazione di uomo che per volontà diddio – la cucina dei Sardi si sostanzia nelle più disimparate usanze gastronomiche punico-fenicie, berbere, persiane, greco-romane... È l’isola che nega l’omologazione del gusto e difende la storia sociale di un popolo, sempre frenato nell’accettare condizionamenti e colonizzazioni ma altrettanto pronto a dare meditato asilo alle più provvidenziali intuizioni degli altri. I Sardi hanno tempi lunghi, riflettono (almeno loro), sospettano (beati loro), non lasciano spazio alla supina accettazione di un’altrui “moneta”, potenzialmente così “cattiva” da scacciare, prima o poi, quella buona.
 

Da una parte fiorivano i gioielli indigeni della cucina sarda (il caglio di capretto, i formaggi di pecora, il gioddu, i prosciutti di pecora e capra, il pane carasau e la sapa), dall’altra restavano lasciti alimentari dimenticati e quasi caduti di mano agli “estranei”: la merca di Cabras, il Cous-cous, lo scabece, la bottarga… Ai lavori di mare futuri si sono dedicati altri "invasori" non-sardi, più abili nuotatori - liguri, spagnoli, toscani - ben prima che le sponde fossero invase dai moderni colonizzatori: uomini d’affari, banche, tour operators e politicanti senz'arte ma sempre di parte.

Additare continuità alimentari antiche come la fame è il mio modo per rifletteree far riflettere sulle ragioni e le cagioni dello splendido isolamento della Sardegna. Ma è, prima di altro, atto di pagano omaggio al genius-loci di questa terra in cui, piucchè in altre, la fame ha plasmato la storia. Il sistema oggi spaccia l’asettico per buono mentre buon senso e tradizione tribolano sull’altare di disoneste e incolte lobby politico-alimentari. E il lessico alimentare sopravvissuto nel casu marzu o nella cordula confonde noi eppiù ancòra i nostri figli. Eppure le antiche continuità gastronomiche della Sardegna sono documenti ancora vivi – per quanto? –, attuali – fino a quando? -, capaci di evocare in chi sa ancora emozionarsi, un modo di sapori, profumi, gesti e suggestioni sempre più remoti, sempre più flebili.
 

La Sardegna è bella, selvaggia e dolce come il miele. È una terra che ha una profonda stratificazione storica e culturale, che ha prodotto civiltà nel corso dei millenni ed ha partecipato a tutte le maggiori correnti della civilizzazione europea e mediterranea. I segni di questa storia ci sono tutti, evidenti, come è evidente il retaggio culturale presente nella musica, nell’arte, nell’artigianato, nella letteratura, nella cucina. Ma la ricchezza dei sardi non è il cemento sparso a piene mani sulle coste o le buffonate folkloristiche allestite per i turisti dei resort. Non è nemmeno nei campi da golf, nei porti turistici o nelle megaville che si affacciano su quel mare “esclusivo” che fu per millenni foriero di invasioni e scorrerie. Che l’Isola-Madre sia carente di molti servizi è evidente, così come molte località che hanno perso il loro senso di antica e dignitosa umanità dimostrano scarsa capacità di accoglienza. Ma tutto questo è colpa solo di pochi ma potenti faccendieri, politici ignoranti e zotici speculatori. Il “petrolio” dei sardi sta invece nel loro patrimonio storico-archeologico unico al mondo, nelle almeno 5 lingue storiche derivate dal greco e dal latino, nell’arte e negli altri mestieri delle mani di cui trabocca ogni luogo, nell’integrità ambientale di enormi tratti di territorio, nello spirito genuino di condivisione e di ospitalità spontanea che anima le comunità, fuori dagli stereotipi etnici e dalle grandi feste comandate dai turisti.
 

Il “petrolio” dei sardi sta anche nella loro cucina che è orgoglio domestico e paesano, identità, espressione creativa, esperienza collaudata nei millenni. La civiltà agropastorale, la caccia, la pesca, l’utilizzo assennato della natura in tutte le sue manifestazioni hanno regalato a un popolo che ha saputo vivere in austerità tutti gli ingredienti per sviluppare una civiltà gastronomica unica e senza eguali: ottimo grano duro, eccellenti ortaggi e verdure, squisita frutta spontanea e coltivata, ortaggi selvatici, selvaggina, molluschi e frutti di mare, formaggi, salumi, dolciumi... Per apprezzare in pieno il valore della cucina sarda, bisogna evitare i locali di lusso e scegliere gli ambienti più veri e originali. Le trattorie, meglio ancora le case dei pastori, dei pescatori, tra i contadini e le massaie paesane, tra i reali depositari delle sapienze culinarie tramandate con testarda ostinazione. A cominciare dal pane, un pugno di farina impastato pazientemente dalle mani delle donne sarde che si modella a poco a poco in figure geometriche complesse, in elaborate forme di animali, in figurazioni di fantasia. Il forno da a quei capolavori d’arte popolare l’ultimo tocco di grazia, arrotondando le forme, tingendo con i colori della natura le sculture forgiate secondo antichi modelli, tramandati oralmente, eppure sempre diversi l’uno dall’altro.

La Sardegna non è solo il pane “carasau” o “carasattu” (smettiamola di chiamarlo carta-da-musica!) ma anche il "civraxiu" (dal latino cibàrius, ossia cibo per eccellenza), "is ladixedas" (le schiacciatelle) nella Trexenta, le pastedure nel Campidano, "sa covazeda" nel Montiferru, il pane arricchito da patate in Barbagia. E poi una gamma di pani tondi: dalla spianata del sassarese alla focaccia lunga di semola di Alghero, dalla focaccia azzima di chiara derivazione araba a quella gialliccia di Desulo e Tonara (Nu). Il pane per i sardi è simbolo della vita e del lavoro, elemento sacro che nei suoi riti austeri di confezione diventa funzione religiosa. Che oggi, ancora una volta, mi commuove e stupisce.

Sergio Grasso

 

La foto che ritrae la forma di casu marzu è tratta da Wikipedia.it; la foto che ritrae il caglio di capretto è tratta da www.formaggio.it; la foto che ritrae i culurgiones è tratta da tripadvisor.

 

 

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