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Cronaca di una giornata sulle coste della Planargia

di Matteo Marteddu

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Superato l’abitato di Suni, si aprono gli spazi a occidente. Il serpentone di macchine con gli escursionisti CAI, ha quasi un attimo di esitazione; davanti agli occhi quel panorama unico, la valle del Temo, nella mattinata uggiosa di questo marzo che non sconfigge l’inverno. E capisci perché laggiù, sotto il castello dei Malaspina, si sono incrociate le spade, si sono consumate tragedie, si sono intrecciate dinastie. Persino i fortilizi in cemento e ferro, simboli muti della opaca visione bellica tedesca, fanno ormai parte del paesaggio. Il fiume si guadagna il mare, con le sue anse, con placida lentezza, non da la sensazione, forse come tutti i bosani,  di nervoso parossismo per raggiungere l’estuario. La valle ha una sua particolare luminosità, il cuore della Planargia. Quel Castello si erge ancora a protezione, grondante Storia, grande Storia di Sardegna, sorretto dalle abitazioni multicolori di Sa Costa, tra viuzze strette e profumi medioevali.
Verso la dorsale per Alghero. Il mare sulla nostra sinistra ha una sua compostezza strana. E pensiamo ai nomi mitici di quelle aspre insenature che ci stiamo lasciando alle spalle: da Badde Aggiosu a Marrargiu, da Porto Managu a Compoltitu, da S’Abba Druche a Tentizzos, a Torre Argentina, Seno ‘e Sa Pazzosa. Qui, quelle falesie rudi, di pietra scura vulcanica, si lasciano accarezzare dalle onde; formano un unicum ambientale, patrimonio indisponibile, soprattutto ai ricorrenti tentativi di selvagge colate di cemento. La litoranea si inerpica; siamo in territorio di Villanova Monteleone, quel borgo lassù, lontano dal mare, che conserva le sue radici dei Doria, che conserva sulla sua pelle le ferite delle sanguinarie invasioni moresche, che oggi si affaccia alle prospettive di un turismo culturale coinvolgente.
Hanno dovuto faticare molto quei coraggiosi del CAI, per aprire il sentiero, tra arbusti, rovi, macchia bassa, pietra lavica e fanghiglia. Saliamo, graffiando il terriccio ancora gravido d’acqua. Il costone de “Su passu Malu”. Obiettivo Sa Rocca Pinta. Un fungo di cenere friabile, esposto ai venti del maestrale, schiaffeggiato dalle piogge saline; il risultato è l’opera d’arte sopra di noi, figure che si compongono e si scompongono, maestrie e suggestioni di una mano d’artista, armonie e immagini di un monumento che non può che essere patrimonio dell’umanità. Si prosegue lungo Badde Jana, saliscendi che mette a dura prova gambe e cervello, crescono le difficoltà. Eppure occorre procedere. Non ci sono vie di fuga. Ancora salita. Skyline che chiude, a nord, il mare a Capo Caccia.  Si erge solitaria, sfidando il mare e le sue incognite, la torre saracena del ‘600, “ Sa turre ‘e Sos Dimonios”, messa lì, sopra Badde Jana, a proteggere, a tentare di respingere quegli oscuri bardaneris che aggredivano le coste da Occidente. Ancora sta qui, resistente, in rapporto di vicinanza con la domus del neolitico, a cinquanta metri, con lo sportello di chiusura ancora in sito. Due epopee di Sardegna, narranti la nostra cultura, che stanno accanto e che sfidano il tempo e l’oblio. La discesa, sui costoni di pietra e di fango, aggrappati alle corde per superare passaggi incerti, sino a quei salti d’acqua che non ti aspetti. “S’Istrampu ‘e Su Segnore” lascia senza fiato. Si raccoglie qui la forza dei torrenti dei costoni, assume l’aggressività selvaggia, si scarica a valle sino al mare. Cascata fragorosa e bella. Scarponi sul fiume, per riguadagnare la strada. Volti distesi, dopo la fatica, che accompagnano il sole calante, lontano sul mare senza fine, qui a occidente.

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