Senza grandi clamori mediatici ci avviciniamo a Sa Die de sa Sardigna, istituita dalla Regione il 14 settembre 1993. Una Festa del popolo sardo in cui identificarsi e nel contempo un’occasione per studiare e conoscere – segnatamente da parte dei giovani – la nostra storia, compressa e manipolata quando non abrasa e cancellata.
Si è detto e scritto che l’evento del 28 aprile del 1794 sarebbe debole: una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini e illuministi, per cacciare l’odioso vice re Balbiano e qualche centinaio di piemontesi, nizzardi e savoiardi. Non sono d’accordo. A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni Girolamo Sotgiu. Non sospettabile di simpatie “nazionalitarie” o sardo-identitarie, il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data al 28 aprile da storici filo sabaudi, come il Manno o l’Angius, considerato alla stregua, appunto, di una congiura.
“Simile interpretazione offusca – scrive Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura - cito sempre lo storico sardo - potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale,di fedeltà al re e alle istituzioni”.
A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico
né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione
di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.
Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile
testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti come molenti, inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.
Questo a livello storico: c’è poi il significato simbolico dell’evento: i Sardi dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”.
“Fu un momento esaltante – scrive Lilliu –, il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo a una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”.