È un Santo da cui non ci si stacca. La sua importanza è globale ma ciascuno ne vede, individualmente, e vorrebbe prendere a esempio la tipologia: l’umiltà, la riservatezza, il lato dell’ombra. Mica una cosa da niente essere il padre putativo di Gesú Cristo, Deus, e sopportarne il ruolo. Giuseppe è l’antidoto migliore contro ogni superbia e protervia. Il mensile “Medioevo” di questo marzo 2014 dedica la copertina e il saggio centrale, di Eriberto Petoia, proprio a San Giuseppe, alle sue tradizione e iconografia nei secoli bui. Ne esce l’uomo, il padre di famiglia che sacrifica il poco che ha, persino il mantello e le scarpe, perché il bambino e la moglie stiano meglio di lui. È Giuseppe ad essere avvertito dall’Angelo perché porti in salvo la sacra famiglia, la fuga in Egitto, prima che arrivino gli sgherri di Erode. In Giuseppe niente è sacro e tutto è umano: nell’orizzonte quale può essere intravisto dalla bottega di un falegname. Ma è un orizzonte salvifico non solo per Nazareth ma per il lato occidentale e orientale del mondo intero. Accettare la contraddizione di essere un umile strumento per il disegno dello Spirito, che è una prospettiva di speranza nonostante tutto: questa è la grandezza di Giuseppe. Non può aspirare ad essere re eppure il suo vincastro, legno secco, fiorisce. Non possiede cavalcatura da guerriero, tutt’al più un asino. Il Dio umile è in lui, il sogno di un’umanità a misura d’uomo.