De te fabula narratur, Sardinia: si parla di te, Sardegna, in questa bella e suggestiva favola Sardus Pater, di Vincenzo Mereu pubblicata dall’Alfa editrice. Della tua storia, della tua civiltà: quella preistorica: prenuragica e nuragica. Una favola bella che ci riporta al mondo delle origini, a uno splendido passato di bellezza: che ci lascia un’impressione di letizia, come se avessimo attraversato un paese amabile e felice. Il periodo prenuragico e nuragico “al tempo del Sardus Pater”, è infatti visto, descritto, cantato, celebrato, rappresentato e dipinto come l’età dell’oro, arcano e felice, solcato com’è da lampi di magia che creano nel lettore stati d’incanto, con “Le meraviglie della Terra e della Natura”, soprattutto a confronto con il buio del presente, in cui “l’uomo moderno ha devastato la Natura e la Terra” . E’ il periodo in cui “i cavernicoli, così chiamati perché per millenni abitavano nelle caverne, stanchi di mangiare sempre l’erba dei campi e carne degli animali che cacciavano” pregano Giove perché mandi loro “cibo più saporito”. Giove li ascoltò, scese la dea Cerere per portare “un chicco di grano”. Che sepolto darà vita a tante spighe. E poi alla mietitura (sa messadura), alla trebbiatura (sa trebadura) nell’aia (s’arzola): in cui il grano veniva predisposto per il calpestio da parte del bue o del cavallo “aspettando che arrivasse il vento per separare la paglia dai chicchi”. E infine alla farina, inizialmente “schiacciando i chicchi di grano con grosse pietre”, in seguito con “la mola fatta girare da un asinello, aiutato anche da un cavernicolo con un lungo bastone”. Farina che impastata e cotta sopra grosse pietre infuocate, “sarebbe diventata il cibo che avrebbe sfamato tutta l’umanità per secoli e millenni e per sempre”. Ma la metamorfosi dei cavernicoli avviene con la discesa di Sardus Pater in “una notte illuminata a festa da una splendida Luna d’argento”. “Fonderò – proclamerà il Sardus Pater – una nuova civiltà e voi non abiterete più nelle caverne, ma io vi insegnerò come costruire grandi case, come non ce ne sono in tutto il mondo, che dureranno per millenni. Fonderemo la società umana in cui ciascuno vivrà felice nella fratellanza e nell’amore”. E così – aggiungo io – nascerà la civiltà della sovranità comunitaria, che non costruisce città ma villaggi, perché la città è ostile alla terra, agli alberi, agli animali. E si affermerà la civiltà della gestione comunitaria delle risorse, della democrazia, dell’egalitarismo, dei rapporti amichevoli con gli altri popoli del Mediterraneo. La civiltà che rispetta l’ambiente, la natura, gli equilibri dell’ecosistema, della terra perché essa non ci appartiene e siamo noi che le apparteniamo, siamo solo i suoi figli e non i suoi padroni. La civiltà che identifica la Comunità e la Nazione sarda con i suoi nuraghi. Migliaia di nuraghi: 8.000 secondo le fonti ufficiali dell’Istituto geografico militare, che però li censisce secondo modalità militari e non archeologiche; 20.000 secondo Sergio Salvi e 25--30.000 secondo altre fonti non ufficiali. Costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto. Migliaia di nuraghi che sono monumenti alla libertà, all’egualitarismo, all’autonomia, all’indipendenza delle singole comunità. E con i Nuraghi innumerevoli dolmens e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo, monili e gioielli, d’oro e d’argento. E innumerevoli vasi. Con un’economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Un’economia che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini. O, come almanacca Vincenzo Mereu in Sardus Pater, “frutta, formaggi, caraffe di vino e ogni cosa prelibata”. Ma anche la musica delle launeddas: “per rendere più gioiose le danze e le feste popolari nei secoli avvenire”. Al cui suono, la comunità del villaggio, tott’umpare si pesat a ballare. “Ma – conclude Mereu – purtroppo dopo secoli e millenni, la civiltà nuragica scompare, messa in fuga dalla civiltà moderna che ha portato con sé comodità e ricchezza….ma anche l’inquinamento e il disastro ecologico, guerre con milioni di vittime innocenti e immani sciagure”. La (in)civiltà dell’Ordigno contrapposta alla civiltà dell’Organismo (per utilizzare una potente metafora dell’intellettuale sardo Eliseo Spiga) comunque non prevarrà: “Sardus Patrer torna sulla Terra e incatena i guerrafondai e distrugge tutti gli strumenti e le armi che sono servite per le sciagure umane. La pace ritorna e l’Umanità esulta per l’opera del dio che restituisce la gioia a tutti gli uomini”.
E’ il messaggio finale della favola Sardus Pater di Vincenzo Mereu. Tutte fantasie? Si tratta solo di lacerti lirici e onirici? Di struggente nostalgia per un antico splendore? Di una favola – sia pure bella – che Mereu sogna, invoca, almanacca, come una necessità fantastica e biologica, ma pur sempre una favola? L’invocazione di un mondo salvo e salvifico, di una tana, di un’arca di Noè per salvarci dalla disumanizzazione di una realtà dominata dall’Ordigno? Certo, può darsi. E comunque se di favola si tratta, è una favola che parla di noi, di noi sardi e di noi uomini e donne del 2014. Dei nostri problemi e delle nostre ossessioni ma anche delle nostre aspirazioni e delle nostre speranze.