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La nuova sardegna. «Abbiamo visto fuggire i tre killer di Dina Dore»

Finalmente qualcuno parla. Nuovi sopralluoghi degli inquirenti in paese e nuovi interrogatori: ma ancora non c’è un nome sul registro degli indagati gavoi»

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di Valeria Gianoglio.

GAVOI Erano in tre, correvano come disperati, si erano infilati nei vicoli della parte alta del paese, e qualcuno li aveva anche visti. Due persone li avevano scorti, dalla finestra di casa, quando ancora non sapevano chi fossero e per quale motivo stessero fuggendo come forsennati tra le strade di Gavoi, la sera del 26 marzo del 2008. Per qualche anno, tra la paura e il timore di parlare, coloro che avevano assistito a quella scena se l’erano tenuta rigorosamente per sé. Bocca cucita, neppure una parola riferita agli investigatori che cercavano di sciogliere il mistero legato a una morte terribile: quella di Dina Dore. Giovane mamma di Gavoi morta per asfissia, dopo essere stata incerottata da capo a piedi e infilata nel cofano della sua auto, nel garage della casa di via Sant’Antiocru. Per qualche anno, quelli che avevano assistito alla scena della fuga dei tre, e poco dopo l’avevano ricollegata alla morte della povera Dina, hanno preferito tacere. La rivelazione. Ma alla fine, evidentemente, il senso di colpa, le pressioni degli inquirenti, i ripetuti appelli dei familiari di Dina li hanno convinti a parlare. E a ripetere, sapendo che sarebbe stato messo a verbale, che sì, quella sera del 26 marzo del 2008, intorno alle 20, avevano visto tre persone fuggire per le stradine del paese. E non erano tre persone qualunque, ma data la vicinanza rispetto a via Sant’Antiocru, quelle tre persone erano proprio i tre killer di Dina Dore. La rivelazione, quella che la squadra mobile nuorese e i magistrati hanno aspettato per tanto tempo, è arrivata poco più di un anno fa. Quando ormai, intorno alla morte della povera Dina, sembrava che le indagini si fossero arenate tra mille dubbi e altrettanti silenzi. Poi sono spuntato un paio di testimoni quelli che in gergo si definiscono i testi-chiave, e il caso si è di fatto riaperto. O meglio, ha preso nuova vita, forse ha conquistato anche qualche speranza in più di raggiungere un risultato. Il resto, è storia di questi ultimi mesi: nuovi sopralluoghi degli inquirenti a Gavoi, nuovi interrogatori di “persone informate sui fatti”, nuove domande fatte agli abitanti del paese e ai familiari di Dina. Le ultime risalgono ad avant’ieri. I sospetti. Ma il registro degli indagati continua a rimanere immacolato: non un nome, solo un mucchio di sospetti. Tra gli ultimi sentiti, sempre come persone informate sui fatti, sono stati anche il marito di Dina, il dentista Francesco Rocca, e la madre di quest’ultimo, ma anche due giovani manovali del paese. Due persone che a sentire i gavoesi tutti conoscono e non hanno avuto problemi con la giustizia. E le domande rivolte a Francesco Rocca erano legate proprio alla conoscenza di questi due giovani. In sostanza gli inquirenti gli hanno chiesto perché a suo tempo avesse detto di non conoscerli. Gli hanno chiesto conto di questa discordanza, ma nulla di più. Certo è che, dopo tanti anni, anche gli inquirenti, come hanno già fatto sin dal primo istante alcuni familiari di Dina, cominciano a convincersi che ciò che è accaduto il 26 marzo del 2008 nel garage di casa Rocca-Dore non era un sequestro di persona finito nel sangue, ma qualcosa di molto diverso. Dina, quella sera, doveva essere uccisa. E questa decisione poteva nascere da due ragioni. La prima: doveva essere uccisa perché così era stato deciso da qualcuno che evidentemente le voleva male. Ma chi poteva nutrire un odio del genere nei confronti di una giovane mamma con una bimba di pochi mesi? Aveva visto qualcuno? La seconda ragione: Dina è stata uccisa perché, quella sera, nel garage di via Sant’Antiocru ha visto qualcosa che non doveva vedere. Forse, quel giorno, aveva visto il volto dei banditi. Forse, nel tentativo disperato di proteggere la piccola Elisabetta, che aveva appena poggiato a terra nel suo “ovetto” prima di salire ai piani alti della casa, Dina si è difesa come una leonessa e nel farlo ha strappato il cappuccio di uno dei banditi. E l’ha visto in faccia e riconosciuto. Per questo, a quel punto, doveva essere eliminata. Quattro anni e mezzo fa, subito dopo la scoperta della tragedia, qualcuno aveva ipotizzato che i malviventi, quel giorno, fossero entrati in casa Dore perché volevano rubare i fucili di Francesco Rocca, appassionato cacciatore, come del resto altri nella sua famiglia. Non sapevano, evidentemente, che il dentista gavoese i fucili li teneva al sicuro in una cassaforte e non li lasciava alla mercè di chiunque. Secondo questa ipotesi, dunque, i banditi, nel percorso tra il garage e i fucili, si sarebbero trovati Dina di fronte, e a quel punto avrebbero cercato di fermarla. Ma lei, come tutte le mamme di fronte alla prole, si sarebbe difesa come una leonessa. Fino al punto di strappare le loro maschere e vederli in faccia. Certo è che sotto le sue unghie sono state trovate tracce di Dna maschile. Purtroppo, a distanza di anni, e nonostante centinaia di comparazioni, non è stato trovato nessuno compatibile con questo Dna. E il giallo, dunque, continua.

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