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La nuova sardegna. La promessa di Obama «Il meglio viene ora»

La prima sfida: affrontare la crisi economica e lo spettro della recessione L’abbraccio alla moglie Michelle diventa l’evento record sui social network

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di Alberto Flores d’Arcais

CHICAGO Finiti i festeggiamenti Barack Obama torna al suo lavoro di presidente. Si lascia alle spalle una vittoria più consistente del previsto e si prepara ad affrontare un futuro ancora pieno di incognite. L'America resta un paese diviso. Politicamente - e questo lo ha confermato il voto - ma anche su temi cruciali per la vita quotidiana: come affrontare la crisi economica (che ha dato qualche segno di risveglio, ma non ha allontanato del tutto lo spettro di una nuova recessione), l'eterno dilemma tra aiuti statali e un mercato iperliberista, le questioni sociali ed etiche che vanno dall'ambiente ai matrimoni gay. Nella sterminata sala del McCormick Place di Chicago, l'annuncio della vittoria - appena anticipata dai network televisivi - è arrivata via twitter. «Voi lo avete reso possibile, grazie». Quando l'eco del “cinguettio” di Obama è giunto alla folla, nel quartier generale democratico è esplosa la festa. Le note a tutto volume delle canzoni di Springsteen e dei Beatles, la voce inconfondibile di Ray Charles, il rythm&blues hanno fatto impazzire la moltitudine che cresceva di minuto in minuto, con migliaia di persone in arrivo da ogni angolo della città. È questione di un'ora, poi nel tripudio generale arriva il presidente. «Torno alla Casa Bianca più determinato di prima», grida dopo un lungo abbraccio con Michelle. E la foto di un altro abbraccio alla moglie, postata su Twitter da Obama con l’annuncio della vittoria al mondo (“Four more years”), farà rapidamente il giro del mondo, rilanciata da oltre mezzo milione di “tweet” in pochi minuti. Un record. E a Michelle il presidente riserva una vera e propria dichiarazione d’amore: Non ti ho mai amato così tanto - dice - e non potrei essere più orgoglioso di vedere quanto l’America ti ama». «Per l'America il meglio deve ancora arrivare», dice il presidente dopo il rituale omaggio all'avversario sconfitto («mi sono complimentato con Mitt Romney»). Guarda le figlie e parla di istruzione - «vogliamo che i nostri ragazzi possano andare in scuole migliori e con migliori insegnanti» -, saluta i militari americani che in posti lontani «difendono la nostra libertà», tira fuori una frase “kennedyana" («il futuro dell'America non è cosa possiamo fare per noi, ma cosa può essere fatto da noi»), invita a dimenticare le dispute e le polemiche elettorali: «non importa se siete bianchi, neri, ispanici, asiatici, se siete gay o no, tutti insieme possiamo costruire il domani». Un domani che è iniziato ieri, dopo la sbornia elettorale e la nottata di festa. Analizzando i dati che vedono tutti gli «Stati in bilico» conquistati dal presidente (a parte la Florida, dove ancora si contano le ultime schede), telefonando ai nuovi senatori democratici che hanno strappato difficili seggi ai rivali, prima fra tutte quell'Elizabeth Warren che ha «riportato a casa» il seggio che fu di Ted Kennedy e che era caduto nelle mani del Drand Old Party. Un domani iniziato scandendo i tempi di un'agenda che si annuncia difficile. Gli stessi elettori che lo hanno confermato alla Casa Bianca hanno votato per un Congresso ancora diviso (Senato ai democratici, Camera ai repubblicani) e il presidente non avrà vita facile. Il Gop, scottato dalla sconfitta, già annuncia battaglia, pronto a frenare gli "eccessi di statalismo" della Casa Bianca. Nel secondo mandato Obama avrà però la mano più libera. Perché dalle urne esce rafforzato (nonostante abbia avuto meno voti rispetto al 2008) e perché potrà evitare dannosi compromessi con la “nomenklatura” e le lobbies di Washington, visto che non dovrà più preoccuparsi di una futura rielezione. Lo deve a quelle fasce dell'elettorato che lo hanno riportato alla Casa Bianca, le donne (il 55 per cento si sono schierate con lui, il 44 per cento con Romney), i giovani (60 contro 37), i “latinos” (69 a 29) determinanti in Stati-chiave come il Nevada e il Colorado ma anche nella Miami dei cubani (e questa è una novità). Infine la comunità ebraica. Che conta meno di altri gruppi in termini numerici ma che ha una grande influenza politico-culturale. Romney pensava di averla conquistata, con il suo viaggio in Israele e con lo smaccato (anche se non ufficiale) appoggio del premier israeliano Netanyahu. Si sbagliava. Gli ebrei americani hanno votato al 70 per cento per Obama, lasciando a Romney meno di un terzo dei loro voti. La rielezione offre adesso ad Obama una seconda chance che verrà presto messa alla prova, ad iniziare dalla questione del debito pubblico. Potrà anche confermare (e forse migliorare ancora) la sua riforma sanitaria, che andrà a pieno regime ( e per tutti gli States) entro il 2014, quando nuove elezioni di “medio termine” ci diranno dello stato di salute dell'inquilino della Casa Bianca

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