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L'unione sarda. Michela Murgia pronta al salto

A un passo dalla candidatura: «Ma decido tra un mese»

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Michela Murgia fa politica? E dov'è la novità? La fa con i suoi scritti fin dall'opera d'esordio, “Il mondo deve sapere”, il precariato visto dalle sue viscere. Ma ora la scrittrice è a un passo dall'impegno diretto: ieri, sul suo blog, ha risposto alle voci di una candidatura alla presidenza della Regione confermando che Progres (partito cui è vicina) le ha chiesto di «verificare la fattibilità di una coalizione civica» con forze indipendentiste, società civile e «quanti vogliano costruire un progetto comune per la Sardegna». La riserva, come spiega in questa intervista, sarà sciolta il 3 agosto a Nuoro, alla festa di Progres. Nel frattempo cercherà «persone di quella classe dirigente diffusa, poco coinvolta nella vita politica, disposte ad assumersi con me il compito di esprimere partecipazione nel metodo e condivisione nelle scelte».
Quindi si sta candidando?
«Alla domanda secca, rispondo no. Rifiuterei l'impostazione: da 20 anni qualcuno si sveglia per dire, sapete che c'è? Mi candido. Non amo i personalismi, semmai ti candidano altri».
Era la formula dei vecchi comunisti o democristiani.
«Io sto raccogliendo il mandato di Progres, con cui ho un lungo rapporto anche se non sono tesserata, per creare una coalizione trasversale con liste civiche in cui confluiscano varie provenienze: anche chi arriva dai partiti, ma non crede più di poterli riformare».
Chi potrebbe starci?
«Sto incontrando decine di persone e trovo risposte molto positive, ma per ora è giusto non fare nomi».
Non sarà comunque un polo solo indipendentista.
«No. Progres lo è. Io pure. Ma l'indipendenza è un risultato storico, che passa dall'assunzione di responsabilità dei sardi. Dal rifiuto dell'idea che le soluzioni arrivino da fuori».
Allora un polo sovranista?
«Per carità. Sovranismo sta a sovranità come buonismo a bontà. Io non ho paura di parlare di sovranità. Non mi candiderei a rendere la Sardegna indipendente: semmai a indicare buone pratiche che aumentino la nostra indipendenza».
Per esempio?
«La vertenza entrate fu un buon esempio di sovranità. Ma se lo Stato dice che non ha soldi, un vero presidente va in fondo ai nostri poteri, crea un'Agenzia sarda delle entrate e trattiene tutte le imposte fino al pareggio del debito. Questo è un gesto di indipendenza? Per me sì. E decidere noi la politica energetica? Per me sì».
E invocare la zona franca?
«Di per sé, trasferire il peso fiscale su altri territori è il contrario di quel che auspico. Ma oggi la Sardegna non è in condizioni di parità. Alcuni sistemi (non la zona franca totale) possono essere una strada, temporanea, per un riequilibrio».
Si rivolgerà alla sinistra?
«Le buone pratiche di indipendenza sono trasversali, come i poteri forti. Mi rivolgo a chi vuole un vero cambiamento. Certe scelte di tipo solidaristico piaceranno forse più a sinistra. Ma invocano una svolta anche imprenditori e cittadini tutt'altro che di sinistra».
Ha già un programma?
«Diceva mia nonna che a scrivere bei programmi sono tutti bravi. La gente non crede alle promesse, è presuntuoso voler imporre dall'alto le soluzioni. Vorrei ascoltare le domande delle persone, e con loro scrivere le risposte».
Lei però non ha alcuna esperienza politica diretta.
«Vero. Ma posso dire di aver conosciuto, prima di fare la scrittrice, il vero precariato, quello che i sindacati non ascoltano. Di aver lavorato nella scuola dei docenti sottopagati e vessati. Nonno minatore, padre fattorino all'Arst: per sognare un mondo migliore devi avere rischiato il culo nel mondo peggiore, e scusi se non so dirlo in altro modo».
Se non ha un programma, avrà delle idee-cardine.
«Delle visioni. Di una Sardegna che anzitutto decide quanta energia le serve, e come la vuole produrre. E poi investe in istruzione: quando c'erano le miniere, avevamo i corsi di ingegneria mineraria. Oggi che agricoltura e allevamento sono la prima industria, per imparare a fare il tecnico caseario devi andare a Lodi. Sembra che siamo circondati da laureati, invece sono troppo pochi».
Un'Isola senza industria?
«No. Non confondiamo le industrie con le ciminiere: l'agricoltura è industria. La Sardegna non ha le caratteristiche per ospitare un certo tipo di industria che sta fallendo, ma può sviluppare altre produzioni. Le monoculture non funzionano, noi abbiamo distretti agricoli, della tessitura, della ceramica, zone turistiche. Possiamo fare tante cose. Solo gli insetti si specializzano».
Non teme di sottrarre voti soprattutto al centrosinistra e favorire Cappellacci?
«Uno si candida perché crede nel suo progetto, lo ritiene necessario. Non vedo nel centrosinistra niente di simile al cambiamento che ci serve. Cappellacci? E chi lo rafforza più del Pd? Dal mio punto di vista, che vincano Pd o Pdl è lo stesso».
La battaglia contro la Saras ad Arborea era finalizzata alla sua candidatura?
«Dire questo è una mancanza di rispetto al comitato che combatte da due anni. Se solo Progres ha raccolto l'appello delle popolazioni, è una vergogna di Progres? Per dire qual è lo stile: il giorno dell'assemblea io non sono salita sul palco. E il presidente di Progres ha parlato per 56esimo».
Come farete a superare lo sbarramento del 10%?
«Un progetto simile ambisce a governare, non a fare atto di testimonianza. Quello sbarramento indica il terrore della casta di essere travolta. È la percentuale della loro paura».
Se dopo il voto voi foste decisivi per creare una maggioranza, può già dire che resterete soli, come il M5S?
«Assolutamente no, non faccio discorsi di questo tipo. Ma parlarne adesso è molto prematuro».
A proposito del M5S, che ne pensa?
«L'hanno votato in tanti per un legittimo desiderio di cambiamento. Ma è un progetto che cerca colpevoli, non soluzioni. Credo che molti di loro stiano riflettendo su questa esperienza, e che ci possano essere delle convergenze».
Ma in definitiva, chi glielo fa fare? Cos'ha da guadagnare, e cosa da perdere?
«Chi ha posizioni di visibilità e credibilità ha anche il dovere di assumersi impegni. Non lo faccio come sacrificio: ci guadagnerò in incontri, relazioni, nel dimostrare che si può progettare il cambiamento. In ogni caso potrò dire ai miei figli che la mia ipotesi è stata sconfitta, non che era perdente».
Giuseppe Meloni

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