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L'unione sarda. «Sulle Province l'Isola è avanti»

Segni a Cagliari: ma la Zona franca è solo un'illusione

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«La prima cosa da fare per scongiurare il disastro è evitare di arrivare alle elezioni politiche con il Porcellum». Mariotto Segni, 74 anni, non ha perso la grinta dei tempi in cui arringava le folle in lungo e in largo per l'Italia con la sua campagna referendaria per il maggioritario, che poi nei seggi sancì la morte della Prima Repubblica e, da lì a poco, la fine dei partiti tradizionali già travolti dallo scandalo di Tangentopoli. Ieri a Cagliari, assieme ad Arturo Parisi e al vicepresidente della Camera Roberto Giacchetti, ha difeso l'esigenza di un ritorno al Mattarellum: «Non foss'altro perché permetterebbe di restituire ai cittadini la possibilità di votare il candidato che poi andrà al Parlamento, il ripristino della democrazia». Sorride, ma sotto sotto condivide, la battuta dell'ex ministro della Difesa ulivista Arturo Parisi secondo cui, «per come sono intese dai partiti oggi, le riforme servono solo per non farle». Parla anche della Sardegna, e plaude al voto del Consiglio regionale che, «commissariando le Province, ha aperto la strada per la loro abolizione».
Professor Segni, la riforma della legge elettorale nazionale è una priorità?
«Partiamo da un presupposto: è in ballo molto più della legge elettorale. L'Italia non è in grado di affrontare la crisi con questo sistema complessivo».
Come se ne viene fuori?
«Abbiamo due possibilità. La prima è rassegnarci, tenendoci questo Parlamento che non funziona e questo governo che galleggia. Ma non facciamoci illusioni: prima o poi ci toccherà chiedere l'intervento del fondo salva-Stati».
L'altra strada si spera sia più incoraggiante.
«È quella di dare vita a un sistema che abbia la forza di garantire la governabilità. Il primo passo è la legge elettorale, ma non basta».
Perché?
«Il sistema perfetto sarebbe l'istituzione delle primarie per legge. Inizialmente, però, mi accontenterei del Mattarellum».
Sicuro che sia la legge migliore in questo momento?
«Senz'altro. Tornare al Mattarellum è il presupposto per restituire ai cittadini la scelta di chi mandare in Parlamento: l'elettore vota il candidato e non la lista. Se chiedete per strada chi sono i deputati di Cagliari scoprirete che lo sa un cittadino su cinque. Tra l'altro è la soluzione più veloce, visto che è necessaria una proposta di due articoli e una settimana per votarli. Raccogliemmo un milione 200 mila firme per indire un referendum e un anno fa Parisi e Ceccanti portarono una proposta alla Camera e al Senato. Ma non se ne fece nulla».
C'è un motivo?
«Manca la volontà di cambiare. Penso a “La nostalgia dell'impotenza” del grande politologo francese Maurice Duverger, dove l'impotenza sta nell'immobilismo del ceto politico per garantirsi la sopravvivenza. Di certo in una settimana potremmo disfarci di una vergogna che ci portiamo appresso da otto anni: il Parlamento nominato con il Porcellum».
Ora anche Monti, dopo Berlusconi, minaccia di staccare la spina al Governo.
«Il semplice fatto che questo accade significa che siamo tornati alle prassi peggiori della Prima Repubblica. La forza delle istituzioni è la certezza della loro durata. Solo così il politico domina il burocrate. Oggi per due volte alla settimana si arriva a minacciare la crisi di governo».
È dell'avviso che Letta durerà?
«Potrà durare anche cinque anni, ma sarà sempre sotto scacco. Il sistema è penalizzante. Devo aggiungere, però, di essere contrario a una crisi al buio: mi auguro che non si voti per la quarta volta con il Porcellum perché determinerebbe una situazione ancora peggiore. L'importante è che alle prossime elezioni si arrivi con una legge diversa e che venga fuori un governo forte. Il compito di Letta non è durare, ma preparare una riforma che risolva le cose. Non ha fatto nulla in questa direzione».
Lei invoca il rinnovamento della classe dirigente. Ora come nel 1991.
«Perché l'Italia ha un terribile bisogno di gente nuova. Penso al Pd, che farebbe bene a mandare avanti i suoi giovani, Renzi e non solo. Volgendo lo sguardo invece al Pdl, con Berlusconi a Roma siamo quasi vicini di casa ma il mio giudizio non è mai cambiato. Per il bene del Paese, farebbe bene a ritirarsi e a preparare un successore».
Sa che in Sardegna la legge elettorale è stata già cambiata?
«È paradossale che la questione femminile sia rimasta ignorata. Mi pare di capire che rimane il premio di maggioranza: è fondamentale per la governabilità».
E che cinque Province sono state commissariate?
«La Sardegna è all'avanguardia. Dopo anni in cui a livello nazionale non si è concluso niente, visto che è stato bloccato il decreto Monti, nell'Isola si è avviato il processo per lo scioglimento delle nuove Province. Il merito principale va al Comitato referendario e ai Riformatori, ma do atto volentieri a Cappellacci che in questa fase si è mosso con decisione sul Consiglio regionale».
A proposito: fioccheranno i ricorsi.
«Mi lascia a bocca aperta che a presentarli sarà anche il Pd, che dell'abolizione delle Province aveva fatto un suo cavallo di battaglia».
A proposito, come giudica l'operato della Giunta?
«Ripeto: sulle Province, ma anche sul ricorso contro il cartello degli armatori e sulla Vertenza entrate, Cappellacci si è mosso con tempestività».
E sulla Zona franca?
«È una campagna piena di parole, non di fatti. In questo Cappellacci sta illudendo la gente. All'Isola serve altro».
Che cosa?
«Una macchina burocratica che funzioni. In Sardegna è disastrosa e, dopo quattro anni, forse è addirittura peggiorata. Lo confermano i lunghi ritardi nei pagamenti dei mutui e degli appalti alle imprese».
Che cosa l'ha colpita, drammi sociali e politici a parte, degli ultimi eventi accaduti nell'Isola?
«Seguo le vicende sportive. Penso ai successi della Dinamo, della Torres femminile e allo splendido campionato del Cagliari calcio. Una riflessione proprio sui rossoblù: per noi sardi è triste, ma il Cagliari a Trieste all'esterno dà l'idea di una Sardegna negativa, che non è in grado di garantire le cose più elementari. Si mettano quindi da parte le contrapposizioni e si ponga rimedio».
Lorenzo Piras

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