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L'unione sarda. Un deserto nero attorno a Laconi «Così Sant'Ignazio ci ha salvato»

Rabbia e dolore davanti ai duemila ettari di boschi cancellati

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dal nostro inviato
Andrea Piras
LACONI Frugano col muso tra la cenere per cercare un improbabile ciuffo d'erba. Intorno a loro - tre capre che quasi affondano in un mare di fuliggine - il deserto. Tutt'intorno le ferite del fuoco, delle fiamme che hanno raso al suolo Funtana 'e Maore, il verde dei pascoli, i tronchi e i rami del bosco . Sono le dieci del mattino, il giorno dopo l'inferno, e le schegge di legno ancora bruciano. È la brace che ha resistito all'acqua, alle bombe liquide gettate dall'alto da canadair ed elicotteri. È la scintilla vigliacca che gli addetti ai lavori ben conoscono, che potrebbe riprendere vigore, far rimontare l'incendio ormai domato.
Dall'altra parte delle colline, oltre i recinti del cantiere di rimboschimento di Funtana Mela, proprietà dell'Ente foreste, è andata peggio ai cavalli del Sarcidano. Soffocati da un'aria irrespirabile, massacrati dalle fiamme. «Una fine terribile», commenta un operaio forestale. Quattro, di un branco brado di circa cento animali appartenenti a quella razza sarda riconosciuta ufficialmente solo nel 2005, non ce l'hanno fatta. Ma la stima esatta sarà fatta solo nelle prossime ore, quando davvero si capirà se altri cavalli hanno subìto la stessa sorte.
Gli elicotteri volano bassi, sugli alberi rinsecchiti, sui margini dove il bosco ancora vivo sgomita con la sua parte offesa dal fuoco. È lì che bisogna lavorare ancora, spegnere ogni focolaio per impedire che Laconi ricada nell'emergenza. Nel terrore del giorno prima e di quello prima ancora, in quelle quarantotto ore d'incubo che hanno visto una comunità intera schierata in prima fila per difendersi e proteggere il proprio paese, il suo territorio, la pineta e il più grande parco urbano d'Europa, quello degli Aymerich.
«Sono credente, non credulone, ma quando si stava davvero pensando al peggio, quando il fuoco minacciava così da vicino il parco e l'intero centro abitato sarebbe stato avvolto da una densa, irrespirabile nube di fumo, qualcosa è accaduto. Il vento è improvvisamente cambiato mentre gli elicotteri e i canadair gettavano acqua per creare un canalone umido così da rallentare le fiamme e impedire al fronte del fuoco di raggiungere la pineta, aggredire il parco Aymerich», racconta il sindaco Paolo Pisu. La statua di Sant'Ignazio era lì, al suo posto, sfiorata dalle cascate d'acqua. E sono in tanti, ora a Laconi, a parlare di miracolo, e comunque «di una grossa mano d'aiuto che Francesco Ignazio Vincenzo Peis, il cappuccino Fra Nassiu diventato santo, ha voluto dare al suo paese natale».
È un territorio ferito, abbruttito, spettrale quello che oggi incornicia Laconi. La minaccia, l'altro pomeriggio, è arrivata da lontano, dalla zona artigianale di Perd'e Cuaddu, periferia di Isili. Scirocco, vento caldo e umido. Miscela esplosiva per sfamare le fiamme e far correre il fuoco. Un rogo che ha camminato in fretta. Per tutto il pomeriggio, per l'intera notte. Alle due del mattino, quando tre fronti incandescenti erano sfuggiti al controllo diventando tenaglie minacciose per il paese, per uomini, donne e bambini, e la flotta aerea non poteva certo operare, era il megafono stretto tra le mani del sindaco a mobilitare «tutti gli uomini idonei a fronteggiare l'incendio». Cento volontari della protezione civile, per già nelle ore precedenti si erano sfiancati per avere ragione del rogo, erano pronti a rimettersi in movimento. Al fianco di altrettanti cittadini debitamente attrezzati, dei ranger del Corpo forestale, dei vigili del fuoco, dei carabinieri. Una task force al fronte, determinante per chiudere la strada alle lingue di fuoco impazzite. Al nemico che si impossessava di ettari ed ettari di territorio (saranno quasi duemila, alla fine, quelli divorati tra Isili, Nurallao e Laconi), di boschi, di macchia.
Aerei ed elicotteri arriveranno più tardi. Per poi scomparire. Per quasi sei ore. E tra le fiamme divampava anche la polemica. Furente il sindaco, attaccato al telefono per tempestare di richieste il «mondo intero», gli addetti ai lavori «e la politica che sembrava non aver compreso la gravità di quest'evento». Alla la flotta aerea è arrivata, sul cielo di Laconi. Con le sue cisterne cariche d'acqua e di speranza. Sei elicotteri e quattro aerei canadair determinanti, fondamentali per uccidere i roghi. Mentre seicento anime dovevano lasciare le loro case, i loro rioni, le loro borgate agricole per difendersi dal fuoco. Evacuazione obbligatoria. Decisa dal comitato per l'emergenza riunito in Municipio.
Pauli Corongiu, Bingixedda. E poi Santa Sofia, Su Lau, Funtana 'e Maore. Via tutti, per tenersi stretta la vita.
Caterina Minafra e Graziano De Gioannis hanno casa nell'ex borgo Etfas di Funtana 'e Suergiu. Hanno lottato anche loro, l'altra notte, contro il fuoco. «Miracolati», dicono indicando la strada percorsa dalle fiamme che ha scavalcato la loro abitazione, la minuscola chiesetta «fatta costruire da mia madre, devota alla Madonna della Stella, nel 1972», racconta Caterina Minafra. Sorride, sussurra appena la parola «grazia» pensando «al salto fatto dalle fiamme come volesse, quel salto, preservare il piccolo tempio». Tra l'altro diventato, per qualche ora, la sede di coordinamento per l'evacuazione della borgata.
«Guardate scrivetelo, fatelo sapere. Guardate quella casa, è dell'Ersat. Nessuno aveva pulito il cortile, c'erano erbacce ed è da lì che il fuoco ha poi invaso il mio cortile», tuona Mario Melis mentre assiste sconsolato ai fili di fumo che ancora si sollevano dal capanno letteralmente raso al suolo dall'incendio. «Sono dovuto fuggire, non mi vergogno a dirlo. Ho agguantato Zagor, il mio cane, e siamo corsi in macchina per allontanarci in tutta fretta». Da quel rogo che poco più avanti si era infilato tra le case, tra gli alberi.
«Fuoco di quinto livello», racconta l'ispettore superiore Paolino Serra, comandante della stazione forestale di Laconi, «che vuol dire altissimo livello di rischio per la popolazione. Domani inizieremo la conta dei danni, capiremo quanto territorio sia stato attraversato dal fuoco». Forse millecinquecento ettari, forse duemila. È il paradiso trasformato in un inferno.

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