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L'unione sarda. «Così sono morti i miei amici»

Parla il soldato cagliaritano scampato alla tragedia del Lince in Afghanistan: volevo salvarli ma non ce l'ho fatta, li sogno ogni notte, ora vorrei tornare a casa

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di Enrico Pilia
L'alba del 20 febbraio 2012. Periferia di Shindand, Afghanistan. Pieno deserto, temperatura sotto lo zero, vento impetuoso, le quattro tonnellate del Lince sopportano a fatica la tempesta. Dentro il blindato ci sono quattro militari italiani, rientrano da una missione umanitaria in un villaggio dove il niente, a parte la fame, è il compagno di tutti i giorni. I nostri ragazzi hanno distribuito cibo, coperte, bevande, quello che basta per superare quarantott'ore. E nei loro pensieri ci sono le mani tese dei bambini infreddoliti, mezzo nudi.
La Zeerko Valley è tagliata in due da un fiume che si deve attraversare per poter rientrare alla base di Herat. Dalla botola del Lince, sporge il busto del caporale maggiore Leonardo Loddo, Ironman per i colleghi, mitragliere cagliaritano, 28 anni, alla vigilia del ritorno a casa dopo sei durissimi mesi in missione. Gli altri tre sono chiusi nel blindato. Una squadra unita, amici per sempre. Loddo sa che la notte prima in quel fiume in piena si è inabissato un mezzo identico. Intuisce i rischi, ma esegue l'ordine di andare avanti. I minuti successivi sono fotogrammi sui quali l'Esercito indaga ancora. Il Lince, mezzo anfibio, si appoggia sul fiume, ma la forza della corrente è paragonabile a una condotta larga diversi metri che spara acqua alla massima potenza. Il blindato comincia a roteare, due, tre giri, travolto da un'onda più forte delle altre. Il fiume è profondo 4 metri, il Lince imbarca acqua dalla botola e sprofonda, trascinato sul fondo dal peso. Loddo salta fuori appena in tempo e si salva perché, usando le gambe, riesce a spingersi poco distante. La corrente lo spazza via, il gelo si impadronisce dei suoi muscoli ma non del suo cuore. Perché Leonardo si spoglia - giubbetto, casco, armi e giacca - e nuota per cinquanta metri controcorrente, fino ad aggrapparsi al suo mezzo. Per la prima volta, racconta - a fatica - cosa è successo in quei drammatici secondi: «Ho aperto il portellone, pesa 200 chili, non so come ho fatto. Vedevo il mio amico che batteva sul vetro, gridava». Il mezzo è pieno d'acqua, l'unica via d'uscita è lo sportello, ma le gambe del suo compagno sono intrappolate all'interno. «Mi è morto fra le mani», racconta, sottovoce. Nulla da fare, Loddo prova a sfidare la morte ma tre su quattro non torneranno a casa. Gli altri due, gli diranno dopo, muoiono sul colpo, nel ribaltamento del pesante mezzo. Un incidente, in mezzo a decine di attentati che hanno causato 53 vittime dal 2004. Una missione di pace.
I SOCCORSI «Resto molto tempo sopra il blindato. Aspetto i soccorsi, resi molto difficili dalle condizioni del tempo». Ma un eroe non molla la presa, Loddo vede sulla riva i militari italiani dell'altro Lince che non possono aiutarlo, è in crisi ipotermica, sente le forze che lo abbandonano, le mani sono nere. Ma resta lì. Arrivano gli americani con un potente mezzo di soccorso, ma neanche quel braccio meccanico riesce a portarlo a riva. Un cavo d'acciaio “aggancia” Loddo, ma ci vogliono altri trenta minuti per raggiungere la terraferma. Il mitragliere cagliaritano si sveglia in un ospedale spagnolo, due giorni dopo è a Roma.
IL RICORDO «Erano miei amici, abbiamo vissuto insieme un'esperienza indimenticabile in Afghanistan». Apparterranno per sempre al 66° reggimento Fanteria aeromobile di Forlì: Francesco Currò, 33 anni, di Messina. Francesco Paolo Messineo, 29 anni, di Termini Imerese, Palermo; Luca Valente, 28 anni, di Gagliano del Capo, Lecce. «Ho conservato dei piccoli video, li vedo spesso, loro ci sono sempre», racconta Leonardo, «ho incontrato le loro fidanzate, i genitori, i parenti, ho passato del tempo a parlare, a raccontare la loro storia».
A CASA Oggi il caporale maggiore Loddo è a casa, un banale infortunio a un piede gli impedisce il rientro. Sempre a Forlì, dove è tornato dopo un anno di convalescenza. La sua vita è sconvolta («non dormo da mesi», sussurra), a letto i suoi incubi sono talmente profondi che le urla richiamano i vicini. A Sant'Elia, dove vive con la sorella, lo adorano, tutti hanno imparato ad amare questo eroe dal profilo basso. Sì, è arrivato un encomio, qualche generale è privatamente venuto a trovarlo, ricordandogli i valori di un vero soldato , concetti che Loddo conosce abbastanza bene. Leonardo continua ad avere freddo, a vivere quell'alba maledetta ogni volta che arriva l'alba. Vuole restare nell'Esercito, nelle Forze armate, spera di essere riportato qui, a Cagliari, «dove vorrei cominciare una vita normale». L'eroe vuole ripartire da Cagliari: troppo forte il ricordo dei suoi compagni di sventura, ancora aperta la ferita dentro di lui. Le terapie, i medici, la macchina dell'Esercito che si mette in moto dopo ogni tragedia come questa non Le terapie, i medici, la macchina dell'Esercito che si mette in moto quando ci sono incidenti come questo, lo segue, conosce le sue difficoltà e cerca di riportarlo in superficie, seppure con difficoltà.
Leonardo Loddo ha un ricordo, forte, stampato sulla pelle. Prima di partire per l'ultima missione, aveva cominciato a disegnare, sulla porta del suo alloggio nella base, una grande bandiera con i Quattro Mori: «Ho fatto in tempo a dipingerne solo uno. E soltanto uno si è salvato».

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