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L'unione sarda. Testimoni cercansi, ma l'omertà vince

I sospetti della sorella Graziella che non ha mai creduto al sequestro

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La bimba era sul sedile posteriore della Punto rossa. Come sempre. Dina Dore aveva azionato i telecomando per aprire la serranda del garage. Erano le 18: la donna, 38 anni, moglie di un dentista, Francesco Rocca, faceva una vita abitudinaria, la mattina e il pomeriggio a casa dei genitori con la piccola Elisabetta, poi il rientro a casa, qualche ora prima del marito.
Quella sera, come sempre, aveva levato le chiavi dal quadro, aperto lo sportello posteriore, afferrato il seggiolone e adagiato la piccolina per terra. Non si era accorta di quegli uomini nascosti nell'ombra. L'avevano assalita e lei, che pensava solo a Elisabetta, aveva reagito. Ed era stata colpita, in fronte, con un oggetto molto simile a una roncola. Era viva quando l'avevano incerottata come una mummia con scotch per pacchi, dal mento alla fronte e dalla testa ai piedi. Non poteva respirare e neppure lottare. In cinque, infiniti minuti si era arresa a una morte orribile. Nel frattempo l'avevano sistemata nel bagagliaio della sua auto. Chiuso il portellone i killer era erano andati via, a piedi, attraverso la serranda basculante rimasta semiaperta: il buio li aveva protetti da sguardi indiscreti ma non dalla curiosità di un ragazzino che aveva notato un uomo avviarsi verso una salita poco vicino.
Il marito di Dina Dore era rientrato a casa alle 21, come sempre, e aveva posteggiato l'auto fuori. Aveva visto subito la piccola Elisabetta nel seggiolone per terra dove c'era pure una borsetta. Dina no. Dov'era? Francesco Rocca aveva telefonato al padre, anni addietro finito nel mirino dell'Anonima, e poi le forze dell'ordine. Sembrava tutto chiaro: Dina era stata rapita. Così nessuno aveva ascoltato un'amica che supplicava di controllare il bagagliaio. Tutti concordavano sul fatto che fosse meglio aspettare la Polizia Scientifica, per non inquinare le prove. I telefim insegnano. Alle tre di notte la scoperta: Dina era lì. Morta.
Un sequestro? Un omicidio? La prima ipotesi si era subito fatta strada nonostante i sospetti di Graziella Dore, la sorella di Dina: chi l'ha aspettata a casa e l'ha ridotta a una mummia voleva ucciderla, non rapirla. La sorella, però, non riusciva a individuare un movente: Dina era benvoluta da tutti, non aveva nemici, viveva in famiglia per la famiglia, chi poteva volere la sua morte?
«Dico solo una cosa, c'è qualcuno che accarezza i propri figli con le mani sporche del sangue di Dina»: Graziella Dore era, ed è, convinta che qualcuno abbia visto o sentito e non parli per paura.
Eppure, all'indomani del delitto, la comunità di Gavoi, attonita, aveva risposto con coraggio: «Prendete il dna a tutti noi». Si voleva dimostrare che un omicidio così efferato, ai danni di una donna, della madre di una bimba piccola, non era opera di un compaesano. Ma, passato il momento di commozione, gli inquirenti, ancora una volta, si sono scontrati con due nemici insidiosissimi: l'omertà e la paura.
M. F. Ch.

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